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Due cose due #5

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Nuovo appuntamento con Due cose due. Cosa avrà destato il mio interesse e la mia curiosità in queste settimane?

Libri

Momenti di trascurabile infelicità di F. Piccolo. Ridere dei momenti di tristezza è un controsenso di quelli che possono cambiarti la giornata. Eppure, a saperli prendere, i contrattempi, gli accidenti, i lancinanti dolori momentanei, spesso risultano assolutamente esilaranti. Purché siano di entità trascurabile e vissuti con allegria, appartengono di diritto alla gioia di vivere. E nessuno saprebbe raccontarlo meglio di Francesco Piccolo, che dei momenti di cui è fatta la vita va componendo una perfida e divertentissima enciclopedia portatile.

 

 

 

Il grande Gorskydi V. Goldsworthy. "Era uno di quegli affari che capitano una volta nella vita, se si è fortunati." Per Nicholas, giovane libraio di Chelsea, l'affare si chiama Roman Gorsky: il miliardario russo più ricco e sfuggente di tutta Londra. Gorsky è speciale, i suoi modi sono eleganti con noncuranza, ha fascino, i suoi soldi non gridano, sussurrano, la voce è gentile e non ha bisogno di sfoggiare i simboli del potere. Cosa ci fa Roman Gorsky sulla soglia di una piccola libreria indipendente? Ha una richiesta, uno specialissimo desiderio per cui è pronto a pagare qualsiasi fortuna. Sta ristrutturando una nuova casa (un palazzo che faccia impallidire Buckingham Palace) e vuole che sia dotata della migliore biblioteca privata della città, anzi d'Europa. Non una biblioteca qualsiasi, ma quella di un lettore appassionato, piena di vecchi tascabili e edizioni rare, libri ereditati e novità ancora da leggere. Una biblioteca in grado di incantare… Chi? Natalia Summerscale. Incredibilmente bella e incredibilmente inavvicinabile. Lei e Gorsky si sono conosciuti nella Stalingrado della loro infanzia, poi si sono perduti. È per lei che Gorsky ha costruito tutta la sua fortuna, per lei da decenni costruisce un piano di conquista con la precisione di un generale dell'Armata Rossa. Per lei assolda il giovane Nicholas, Cupido complice e ingenuo del più assoluto degli amori. E Nicholas, scappato dalla guerra in Iugoslavia con in tasca un dottorato in Letteratura e pochi soldi d'eredità, viene di colpo catapultato nel mondo spudoratamente ricco, glam e luccicante della pericolosa oligarchia russa a Londra. Si innamorerà in modo sbagliato, avrà relazioni sensuali e fuori dalle regole, sarà deluso e capirà molte cose. Ma soprattutto dovrà realizzare la più audace delle fantasie: far innamorare di Gorsky una donna, solo per essersi aggirata nella sua biblioteca…
Vesna Goldsworthy è nata a Belgrado nel 1961 e vive a Londra. Scrive in inglese, la sua terza lingua. È autrice di memoir, raccolte di poesie e scritti letterari. Il Grande Gorsky è il suo primo romanzo.

Cinema

Mia Madre di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, John Turturro,Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini. Coprodotto da Italia e Francia, e sostenuto da Eurimages, organismo del Consiglio d'Europa che finanzia le coproduzioni europeee, il film è dedicato alla figura di una regista di successo (Margherita Buy) impegnata sul set di un nuovo film che ha per protagonista un attore italoamericano interpretato da John Turturro. Mentre la sua vita privata si divide tra il capezzale della madre e una relazione che sta terminando, quella professionale è ad un punto morto. A spronarla e a sostenerla c'è il fratello, interpretato da Nanni Moretti, anche lui protagonista di un cambiamento in ambito lavorativo.

 

Avengers: Age of Ultron di Joss Whedon. Con Samuel L. Jackson, Aaron Johnson, Robert Downey Jr., Elizabeth Olsen, James Spader, Chris Evans. Quando Tony Stark cerca di avviare un programma per il mantenimento di una pace duratura le cose vanno male e gli eroi più potenti della Terra tra cui Iron Man, Captain America, Thor, L'incredibile Hulk, Black Widow e Hawkeye saranno messi a dura prova con il destino del pianeta a rischio. Quando Ultron emerge in tutta la sua malvagità spetta agli Avengers impedirgli di mettere in atto il suo terrificante piano e alleanze turbolente e azioni inaspettate spianeranno la strada per un'epica avventura globale.

Eventi

Tamara de Lempicka a Torino, Palazzo Chiablese, fino al 30 agosto. Torno a giocare in casa per una delle mostre più interessanti del periodo. Ma chi è Tamara? Pittrice polacca, fu una delle principali protagoniste della vita bohémienne della Parigi degli anni Venti. Una vita da diva e un grande talento, Tamara aveva amici come Picasso e Gide e la sua arte la rese una dei principali esponenti dell’art decò, pur mantenendo sempre una sua originalità. La mostra, divisa in sette sezioni, racconta la relazione proficua che ci fu tra la sua arte e i luoghi in cui Tamara visse, che furono moltissimi, e le persone che ebbero un ruolo rilevante nella sua vita, come i suoi amanti a cui è dedicata una sezione della mostra. Una mostra affascinante da non perdere.

Memorie Urbane – Street Art Festival, fino al 30 giugno. 40 artisti, 9 città, 4 province e 2 regioni unite sotto un unico manifesto. Memorie urbaneè il festival che coinvolge alcune città fuori dai circuiti urbani, sparse tra le province di Latina, Frosinone, Caserta e Roma. L’obiettivo è di portare l’arte nelle zone più trascurate delle città, trasformandole in musei a cielo aperto. Memorie Urbane ospiterà le opere di 40 artisti provenienti da ogni parte del mondo, alcuni per la prima volta in Italia, e prevede una lunga e interessante lista di eventi e mostre per tutti i gusti. Un festival decisamente tecnologico: oltre ad aver applicato su tutti i muri realizzati targhe con le informazioni degli artisti e degli enti promotori, quest’anno con l’APP URBACOLORS dei francesi urbamedia (scaricabile su App Store e Google Play), ci sarà la possibilità di geolocalizzare i muri e, infine, grazie alla partnership con Techmoving e il suo sistema KoinArt, l’inserimento di un microchip all’interno della targa dell’opera renderà possibile – solo appoggiando lo smartphone alla parete – avere accesso a tutte le informazioni sull’opera e il territorio.

Curiosità

I personaggi dei film di Wes Anderson illustrati. Il progetto è dell’illustratore colombiano Alejandro Giraldo, che ha realizzato alcuni ritratti dei personaggi più famosi del regista americano Wes Anderson. Steve Zissou, Margot dei Tannebaum, Sam e Suzy di Moonrise Kingdom, Gustav, Agatha e ero il Lobby Boy di Grand Budapest Hotel e molti altri rivivono nelle illustrazioni di Giraldo contribuendo a rendere ancora più iconica la filmografia di uno dei registi più amati degli ultimi anni. Inutile dire che sono bellissime.

 

Ecco perché non invitare Jon Snow a cena. Non deve essere facile avere come ospite Jon Snow, basta immaginare come potrebbe rispondere a domande come “Che lavoro fai?” o “Hai fratelli o sorelle?”. Per spiegarcelo, il comico americano Seth Meyers ha mandato in onda durante il suo Late Night un esilarante sketch che sta facendo il giro del web in questi giorni. Il video è un susseguirsi di momenti tanto imbarazzanti quanto divertenti, dove vediamo il povero Jon cercare di spiegare cos’è un “White Walker” e cos’è la Barriera, le sue strane relazioni parentali e il suo non accettare che ormai la primavera è sbocciata, poiché sappiamo tutti che “Winter is coming”. Un video con cui intrattenervi piacevolmente nell’attesa dell’arrivo della quinta stagione di Game of Thrones, in onda a partire dal 12 aprile. Ormai manca davvero poco.

 

Alla prossima!


Serie TV: Favs of the Week #3

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Don-Draper-Jon-Hamm-in-Severance

Torna la rubrica seriale, quest’anno ballerina come non mai ma irriducibile, con i preferiti tra le serie tv viste questa settimana. Sono stati giorni di addii, in effetti, ma anche di ritorni, quindi tutti pronti e come sempre ATTENZIONE SPOILER!

Best quote della settimana

Mad Men 7x08 – Severance

Don Draperè tornato. Anche quest’anno e per un’ultima volta. Ho i brividi solo al pensiero. La seconda metà della settima stagione di Mad Men è ripartita con un episodio dai toni malinconici e che cerca nuovamente di far luce sulla figura di Don e i suoi segreti. Si parte con alcune audizioni per uno spot su delle pellicce, dove il nostro pubblicitario preferito dimostra che, dopo la fine del matrimonio con Megan, è tornato sulla piazza e nessuna donna in tutta Manhattan potrà resistergli. La sua apparente serenità viene però interrotta da due eventi: il primo è l’incontro con una cameriera di un diner dal volto familiare, con la quale Don instaura subito un rapporto di intimità che lo aiuterà a riflettere sulla seconda vicenda, ovvero la morte di Rachel Menken. La scomparsa di Rachel, personaggio entrato nella vita di Don nella prima stagione della serie e poi uscita dopo una breve comparsa nella seconda, ha il senso non solo del tempo che è passato, tanto nella vita del protagonista che per la serie stessa, ma è anche il riemergere di quel passato con cui Don deve ormai fare i conti (e forse la cameriera incontrata per caso ne è un chiaro segnale), oltre che il primo sentore che qualcosa ci sta lasciando o forse l’ha già fatto e noi non ce ne siamo ancora accorti: Mad Men è ormai giunto alla sua conclusione e non ci resta che fare attenzione e assistere al suo ultimo meraviglioso atto. Nel solito parallelismo, Peggy si ritrova ad avere un appuntamento combinato con  quello che potrebbe essere la sua storia di questa ultima parte di Mad Men, mentre con Joan vive uno dei momenti più misogini della serie, a dimostrazione del fatto che anche i liberi anni ‘70 non sono pronti per donne in gamba come loro, lavoratrici talentuose e in carriera che non hanno più bisogno di un uomo per avere un ruolo in società (e la frase di Joan che trovate qui sopra è altamente condivisibile).

Special Season Finale: Shameless 5x12 – Love Songs (in the Key of Gallagher)

Anche quest’anno abbiamo dovuto salutare Shameless. La quinta stagione si è conclusa con un episodio dolceamaro, con la sensazione che il cerchio non si sia chiuso del tutto ma che molte delle storie raccontate nelle ultime due stagioni siano state lasciate alle spalle. Protagonista assoluto di questa season 5 è stato di sicuro il povero Ian, di cui Cameron Monaghan ha dato un interpretazione da urlo per tutta la durata della stagione. Alle prese con una malattia che più volte nel corso degli episodi ci viene ribadito lo accompagnerà per tutta la vita, Ian si trova a dover affrontare un viaggio di accettazione che preferisce fare in solitaria. Prima l’allontanamento dalla famiglia iniziato nella scorsa stagione, poi la fuga da Mickey, e infine lo struggente tentativo dei due ragazzi di far funzionare una delle storie d’amore più belle e commoventi della storia delle serie televisive. In Shameless, abbiamo seguito nelle prime stagioni il nascere dell’amore di Ian per Mickey e i suoi tentativi di incoraggiarlo a  lasciarsi andare, e poi nelle ultime due stagioni, quando sono cominciati i primi problemi del giovane Gallagher, ci siamo letteralmente fatti conquistare da Mickey e da un amore che era sempre più grande e che mai ci saremmo aspettati da un tipaccio come lui. Ora, pensare che la loro storia è finita fa male e spero tanto che le voci che parlano di un addio di Noel Fisher alla serie vengano smentite perché una stagione senza #Gallavich la vivo male. Altra storyline letteralmente adorata è naturalmente quella di Frank. Dopo l’aver rischiato di morire nella scorsa stagione, il nostro Frank torna alla vita più stronzo che mai. E, per una Sheila che va (e che ormai ha fatto il suo tempo) e una Sammi che è come una spina nel fianco da estirpare quanto prima, ecco che arriva Bianca, una giovane dottoressa malata di cancro, con la quale ha inizio a una relazione che è quanto mai catartica per entrambi e in particolare per Frank che sembra quasi rigenerarsi e riscoprire il piacere della vita, anzi quello non l’hai mai perso e semmai ne trova una conferma potente e in qualche modo giustificatrice delle sue scelte sempre piuttosto discutibili. D’altronde uno come Frank arrivi anche a odiarlo ma non puoi resistergli e guai se non ci fosse. Per il resto, ho trovato leggermente confusionaria la vicenda di Fiona: una ragazza dalla vita incasinatissima inclusa la sfera sentimentale, che quest’anno si ritrova con ben due, anzi tre, uomini al suo cospetto. La breve comparsa di Jimmy/Steve ha contribuito unicamente a incasinare ulteriormente Fiona, già alle prese con un matrimonio avventato con il bel musicista e l’attrazione non troppo nascosta per il suo capo, e sono ancora indecisa su che senso dare all’intera faccenda. Di sicuro c’è che la storia di Fiona spesso arriva a sopraffare quelle degli altri personaggi e non è sempre un pregio. In definitiva, la quinta stagione nel suo complesso appare quasi come una stagione di transizione. La crescita, il diventare adulti, coinvolge tutti i protagonisti, Kevin e Vi inclusi, alle prese con il loro ruolo di genitori che li porta alla prima vera crisi di coppia, e se nella quarta stagione l’intera serie era stata attraversata da una grande scossa, quest’anno i nostri Gallagher hanno cercato di affrontarne le conseguenze, in modo più o meno convincente (Lip che sembra allontanarsi sempre più dalla vita del quartiere per abbracciare ciò che il college può essere in grado di offrire a un ragazzo come lui da un lato, Carl che si avvia all’unica carriera che avevamo immaginato per lui, cioè quella del delinquente, e Debbie in cerca come sempre di una famiglia vera e per questo pronta a compiere delle scelte avventate dall’altro), ma sempre guardando avanti. Si cresce giorno dopo giorno in Shameless e il racconto di queste vite sconclusionate e pur così irresistibili continua a fare della serie una delle più amate e tra le migliori da seguire, con quintalate di momenti epici che possono confermarlo (vedi la scena in cui Mickey e Deb credono si aver ucciso Sammi… semplicemente grandiosa!) L’episodio finale, forse, manca di un vero cliffhanger e ci lascia, più che con molte domande, con un unico grande quesito: “Di già?” Perché Shameless scorre che è una bellezza e ne diventiamo orfani sempre troppo presto. Per favore tornate presto!

Special Season Finale 2: House of Cards 3x13 – Capitolo 39

In Italia terminerà solo il 15 aprile, ma qui abbiamo assistito da poco all’ultimo episodio di una terza stagione di House of Cards intensa e controversa ma sempre memorabile e talmente ben scritta da lasciarti senza fiato ogni volta. Con Frank alla guida degli Stati Uniti gli scenari da immaginare a inizio stagione erano molti, ma non ce l’aspettavamo così. Nelle prime due stagioni di House of Cards, Frank Underwoodè sempre apparso un’eminenza grigia in cerca di vendetta, il burattinaio che muove i fili per punire coloro che lo hanno danneggiato e salire la scalata al potere che lo ha condotto all’obiettivo ultimo, la poltrona di Presidente. Arrivato in cima, ora bisogna assolutamente mantenere la posizione e prepararsi alle elezioni. Ed è qui che Frank compie una trasformazione: tra i doveri di presidente, gli oppositori sempre pronti a screditarlo e i suoi alleati che sono anche peggio dei nemici, Underwood si ritrova a non avere più quella libertà d’azione che aveva un tempo, non più alla guida del gioco ma un pezzo, seppur importante, della scacchiera. A mettere in evidenza questo stato di cose è anche la sua relazione con Claire. Da sempre la coppia Frank-Claire ci è apparsa invincibile e impossibile da abbattere, due menti affini che si sono incontrate e desiderano le stesse quasi sempre le stesse cose, condividendo una vita insieme e obiettivi comuni. Ecco, in questa stagione più che la politica sono le relazioni umane ad avere la meglio, soprattutto il rapporto complicato tra il Presidente e la sua First Lady, che ci appaiono più distanti che mai. Mentre Frank appare sempre più in difficolta a tenere salde le redini del potere, Claire prova a intraprendere una sua strada, partendo dalla posizione di Frank come trampolino di lancio. Di episodio in episodio, però, le cose non vanno come dovrebbero, e Claire, ormai sofferente e disillusa del governo di Frank e della realtà che si ritrova ad affrontare, si ritrova di nuovo a essere relegata un ruolo di rappresentanza, con un’opinione pubblica contenta di lei se bionda e un marito che sfrutta la sua popolarità per raggranellare elettori. Sarà sua la mossa finale che stravolgerà ancora una volta le carte in tavola. Quando per Frank sembra di essere tornato in carreggiata, dopo la fallimentare politica estera e il naufragare della sua discutibile riforma per il lavoro, ecco che Claire lo mette di fronte alla realtà dei fatti: il loro percorso è stato tutto un’illusione e marito e moglie non sono mai stati due pari a tutti gli effetti e la reazione di Frank non è che una conferma e se da una parte ci troviamo quasi dalla parte di Frank e della sua concezione machiavellica della vita per cui bisogna fare quello che si deve fare, senza troppe remore e sentimentalismi, dall’altra non possiamo non simpatizzare con una Claire che, lo sappiamo bene, ha rinunciato negli anni a molte cose, convinta di star realizzando un destino comune e che, alla fine, si ritrova stanza e sola di fronte a un uomo che non può dargli quello che lei vuole. La scena in cui Claire torna a Washington mentre in sottofondo si acclama la vittoria di Frank è probabilmente tra le più belle di questa stagione e la decisione finale di lasciare il marito quando la campagna elettorale è ormai nel vivo e le elezioni sono vicine è una rivincita, lo scrollarsi di dosso il peso di una situazione ormai insostenibile, ma anche la mossa inaspettata che rimette tutto in gioco e ci lascia di stucco con un anno davanti prima di scoprire cosa accadrà! Infine, per quanto riguarda la storyline secondaria, quella di Doug, non si può dire che ci abbia lasciato sorpresi, anche se in un primo momento il rancore di Doug sembrava essere più indirizzato verso i coniugi Underwood che sulla povera Rachel. Ciononostante, gli autori sono stati in grado di confonderci e tenerci sulle spine fino all’ultimo. Dapprima Doug sembra più bisognoso di trovare una nuova direzione da dare alla sua vita e ripartire da zero – addirittura le scene con i nipotini parevano volerci racocntare un uomo nuovo – poi, quando viene a galla il suo cervellotico piano per tornare nelle grazie di Frank, ché solo tra simili ci si intende, capiamo che è pronto per chiudere il capitolo Rachel e solo per un attimo abbiamo sperato che la ragazza si fosse salvata e lui si fosse messo l’anima in pace. Ma House of Cards non è una serie di redenzioni e così Rachel finisce nella fossa per buona pace sua e di noi spettatori che già non vediamo l’ora che arrivi la quarta stagione.

 

Buona visione a tutti!

La Recensione del Mese: Il senso di una fine di Julian Barnes

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Ci arrivo piano, ma ci arrivo anche io. Dopo anni a di attesa nella mia infinta wishlist, sono finalmente riuscita a leggere Il senso di una fine di Julian Barnes. Un libro tra passato e presente, la storia di un uomo che cerca di dare un senso a una vita passata sempre in retroguardia, un thriller o un romanzo esistenzialista, una lettura, insomma, che lascia spazio a molteplici piani di lettura e interpretazione e sa conquistarsi il lettore pagina dopo pagina, anche quando sembra prenderlo in giro fino a quelle ultime pagine in cui si intuisce, infine, la verità dietro l’intera vicenda. Ne sarà valsa la pena? Giudicate voi.

 

 

Titolo: Il senso di una fine
Autore: Julian Barnes
Traduttore: S. Basso
Anno: 2012
Editore: Einaudi
Pagine: 160
ISBN 9788806211561

 

 

 

 

 

 

Ricordo, in ordine sparso:

- un lucido interno polso;

- vapore che sale da un lavello umido dove qualcuno ha gettato ridendo una padella rovente;

- fiotti di sperma che girano dentro uno scarico prima di farsi inghiottire per l’intera altezza di un edificio;

- un fiume che sfida ogni legge di natura, risalendo la corrente, rovistato onda per onda dalla luce di una decina di torce elettriche;

- un altro fiume, ampio e grigio, la cui direzione di flusso è resa ingannevole da un vento teso che ne arruffa la superficie;

- una vasca da bagno piena d’acqua ormai fredda da un pezzo, dietro una porta chiusa.

L’ultima immagine non l’ho propriamente vista, ma quel che si finisce di ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni.

La tranquilla e mediocre vita di Tony Webster viene scossa da un’inaspettata lettera. Un avvocato gli annuncia che ha ricevuto in eredità cinquecento sterline e un diario appartenuto a un amico di gioventù. La notizia porta Tony a tornare indietro con la memoria ai tempi della scuola e del college, agli amici e a gli amori di un tempo, e a rileggere tutta la sua vita alla ricerca di una chiave che possa interpretare i motivi di tale lascito e quale significato abbia il segreto che si cela dietro al fatidico diario per la sua storia. Quello che troverà alla fine sarà una verità scomoda e mai realmente compresa da Tony, una serie di risposte a domande taciute per decenni ma che ora tornano prepotenti a farsi sentire, in un’epifania dolorosa ma necessaria sulla cesura che noi stessi creiamo tra ciò che viviamo e ciò che raccontiamo del nostro vivere.

Julian Barnes gioca con il suo lettore, introducendolo in una vicenda dai piani di lettura e comprensione multipli, che se da un parte sembra voler offrire al lettore la libertà di scegliere cosa leggere e comprendere della sua storia, dall’altra lo lascia spesso interdetto e dubbioso, come quando ti sembra di scorgere qualcosa con la coda dell’occhio ma non riesci a capire cos’è. Tony Webster, il protagonista del romanzo, racconta la sa esistenza dispiegando le vicende come in un thriller, lasciando sempre in ombra quel dettaglio o dimenticando le parole precise di un discorso o i particolari di un volto, creando un alone di mistero lungo tutto il libro. Ci introduce nella sua vita partendo dalla sua gioventù, dalle storie di quando era un ragazzo e aveva il suo gruppo di amici con cui andava a scuola, seguiva lezioni di severi professori, si interrogavano sul loro futuro e sulla vita che ai loro occhi doveva ancora cominciare. Ci presenta il suo amico Adrian, precocemente scomparso perché morto suicida, e più in là il suo primo amore importante, la supponente Veronica; entrambi personaggi enigmatici, che attraverso lo sguardo di Tony ci appaiono acuti, di un’intelligenza sopra la media e insopportabilmente snob. Nel tentativo di comprendere quale sia il vero legame che unisce i tre personaggi, il lettore si addentra nei ricordi e nelle riflessioni del protagonista, alla ricerca di quegli indizi che sembrano esserci tra una frase e un dialogo e che ci porteranno alla soluzione del mistero. Prestando una maggior attenzione, però, nel corso della lettura ci rendiamo conto che quella che sembrava una caccia al mistero è qualcosa di più. La narrazione in prima persona ci aiuta a ricostruire un mondo e un’esistenza dove sembra sempre mancare un pezzo. Quello che ci troviamo di fronte è il processo di formazione del protagonista, più volte ripetuto e su cui Tony torna a riflettere di pagina in pagina, in un continuo passaggio tra passato e presente, che da alla sua scrittura la cifra stilistica di un saggio o del resoconto cronachistico di ciò che gli succede (digressioni esistenzialiste a parte). E a voler essere ancora più accorti, ci si rende infine conto di essere testimoni di un tentativo di ricostruzione dei fatti assolutamente unilaterale e per questo mai oggettiva, fino alla rivelazione spiazzante che si incontra nelle ultime pagine. Tony, trinceratosi in una vita anonima e senza troppi scossoni, cerca di raccontarci ciò che è avvenuto ma viene continuamente interdetto dai ricordi e dalle verità che continuano a risalgono in superficie e beffeggiato dal suo passato e da quelli che furono con lui testimoni e protagonisti degli eventi, il tutto riassumibile nella sarcastica domanda che Veronica rivolge all’uomo esasperata dalla sua ottusità: “Ma ancora non capisci?” Una domanda che arriva a colpire nell’orgoglio lo stesso lettore e rivela il tranello orchestrato da Barnes e nel quale ci siamo cascati in pieno. Perché Il senso di una fineè tutto nel gioco di digressioni e illusioni creato ad arte da una prospettiva interna tipica del giallo e dal desiderio di fare del testo un esperimento di metaStoria, dove il tempo, la Storia e la memoria si incontrano per mettere in evidenza i limiti di ognuno. Il narratore sembra farci l’occhiolino ogni volta che ci offre un indizio, ma in realtà ci prende in giro e ciò che ci viene narrato per buona parte del libro non è la storia ma solouna delle storie, la versione di Tony, costruita sui sedimenti che il tempo crea nella sua memoria e su quello che Tony decide di rivelare agli altri ma soprattutto a se stesso di ciò che è chiamato a vivere. Lo sconcerto del protagonista e quindi del lettore di fronte alla verità finalmente rivelata non è dovuta tanto all’incredibile scoperta quanto alla presa di coscienza che ciò in cui finora aveva creduto, l’idea che si era fatto delle vicende e dell’intera esistenza fino ad allora narrata non corrispondevano pedissequamente alla realtà. Noi viviamo e accumuliamo volti, affetti, ricordi e lezioni e ciò che conserviamo delle esperienze che abbiamo vissuto non è la sua visione oggettiva e reale, eppure, è incontrovertibilmente la nostra vita così come l’abbiamo intesa. Il senso di una fine e di una vita, allora, è da ricercarsi in questa consapevolezza, che ciò che viviamo non solo è ciò che ricordiamo, ma ciò che raccontiamo di aver vissuto. Il senso di una fine è il suo essere, in un mondo oggettivo e fattuale, assolutamente arbitrario e unico da individuo a individuo.

Il senso di una fineè un romanzo avvincente che, con una scrittura precisa e finemente cesellata e una narrazione costruita con grande maestria, porta il lettore a immergersi in riflessioni sulla vita, il tempo e la fallibilità della memoria senza per questo rovinare la suspense che si respira per tutto il romanzo né la piacevole tensione che lo spinge a voltare puntualmente pagina dopo pagina, alla ricerca di una soluzione al mistero che nasconde e rivela una delle verità più grandi e antiche dell’esistenza umana. Una lettura affascinante e ricca di stimoli e riflessioni, in cui ogni frase è un piacere da leggere e custodire con cura.

Ah, una menzione dovuta alla splendida traduzione di Susanna Basso. Quel “Il prezzo del sangue” ce l’ho stampato in mente e continuo a chiedermi cosa abbia tradotto dall’originale e quanto bello sia il risultato. Magistrale.

L’autore

Julian Barnesè nato a Leicester nel 1946. Si è dedicato al giornalismo, scrivendo sul «New Statesman», sul «Sunday Times» e sull'«Observer». Tra le sue opere Einaudi ha in catalogo: Storia del mondo in 10 capitoli e 1/2, Amore, ecc. («Einaudi Tascabili»); Oltremanica, England, England(«Supercoralli»), Amore, dieci anni dopo («Coralli» e «Einaudi Tascabili») e Arthur e George («Supercoralli»). Il senso di una fine (pubblicato nel 2012 nei «Supercoralli» e nel 2013 nei «Super ET») è risultato vincitore del piú importante premio letterario di lingua inglese, il Man Booker Prize 2011. Nel 2013 sono usciti, sempre per Einaudi, Livelli di vita (Supercoralli) e il racconto Evermore (Quanti), tratto dalla raccolta Oltremanica; nel 2014, Il pappagallo di Flaubert, nella nuova traduzione di Susanna Basso; nel 2015Metroland, pubblicato nel 1980 in Inghilterra e vincitore del Somerset Maugham Award.

 

Frasi

  • Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene, eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo. Non mi riferisco alle varie teorie su curvature e accelerazioni né all'eventuale esistenza di dimensioni parallele in un altrove qualsiasi. No, sto parlando del tempo comune, quotidiano, quello che orologi e cronometri ci assicurano scorra regolarmente: tic tac, tic tac. Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi? Ma a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano; ogni tanto sembra sparire fino a che in effetti sparisce sul serio e non si presenta mai più.
  • Che cos'è la Storia? Qualche idea, Webster?
    – La storia è fatta delle menzogne dei vincitori, – risposi un po' troppo fulmineo.
    – Sì, temevo che avrebbe detto così. Non dimentichi comunque che è fatta anche delle illusioni dei vinti.
  • All'improvviso mi sembra che una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani, ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri.
  • La nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato

Serie tv: Favs of the Week #4

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Nuovo appuntamento con i preferiti seriali della settimana appena trascorsa, eccezionalmente di lunedì/martedì. Gli ultimi sette giorni hanno riservato qualche ritorno molto atteso e anche qualche novità, di cui però vi parlerò nei prossimi post. Nel frattempo, come sempre, ATTENZIONE SPOILER!

Best quote of the week

Game of Thrones 5x01 – Brace yourself, la quinta stagione di GOT è finalmente arrivata!

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Come se già non ci fosse abbastanza hype su questa quinta stagione, la scorsa settimana siamo tutti letteralmente impazziti alla notizia che ben 4 episodi della quinta stagione fossero già disponibili on line. Il caos. La cosa più sorprendente è stata a reazione dei fan della serie, che si sono fin da subito divisi in due agguerrite fazioni, quella di coloro che non hanno saputo resistere e hanno passato la notte in bianco guardando tutti e 4 gli episodi, e quella di chi ha vissuto il fattaccio quasi come un tradimento e ha deciso per questo di seguire la programmazione televisiva. D’altronde Game of Thrones più che una serie è ormai un fenomeno di costume che abbraccia le tipologie umane più varie, fatto di rituali, chiacchiere in ufficio, maratone tra amici, improvvisi desideri di fare cosplay della khaleesi o di  qualche altro personaggio fichissimo e non sapete manco cosa sia un cosplay… insomma Game of Thrones, arrivato a quota 5 stagioni, riesce ancora a smuovere i nostri animi. Ma alla fine, di questo primo episodio, cosa ne pensiamo? Meh. Ok, è la solita figata e bastano i primi 3 minuti di tette, culi, vino e sangue per sentirsi di nuovo a casa, e l’episodio merita di essere tra i migliori di questa settimana perché come GOT non ce n’è e non può essere altrimenti, però… però, tutti questi mesi d’attesa e quello a cui assistiamo è un episodio piuttosto freddino e senza particolari scossoni. In realtà non succede nulla e l’episodio si presenta come una lunga carrellata dei personaggi che abbiamo lasciato lo scorso anno nelle loro nuove posizioni in quella scacchiera che è ormai il mondo di Game of Thrones. Due sono però le chicche che danno colore all’intero episodio e sembrano preannunciarci il tono dell’intera stagione. Il primo è l’arrivo di Tyrion a Pentos, dentro una cassa e in compagnia del paziente Varys: non appena libero, il nano non perde tempo e si versa del vino, per poi vomitare e subito dopo ricominciare a bere altro #vinoh. Quando si dice la classe. Il secondo, meno goliardico e più significativo ai fini delle vicende narrate, è ambientato al Castello Nero e vede coinvolto il nostro Jon Snow. Il suo gesto compassionevole di porre fine alla vita di Mance con una freccia, evitando così di  vederlo bruciare vivo in uno dei soliti roghi di Melissandre, è probabilmente il momento più importante di tutta la puntata e segna il passaggio di Jon da ragazzo a uomo, da semplice attendente a Lord Comandante. E meno male, perché non avrei resistito alle urla di terrore del re dei Bruti. Questo, signori, è game of Thrones.

 

Orphan Black 3x01 – Cloni come se piovesse

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Diamo il bentornato anche a Orphan Black. Su questo blog ne ho parlato sempre troppo poco, ma accettate un consiglio e recuperatevi la serie, sono due stagioni più un episodio della terza che ci vuole e poi mi ringrazierete. Tornando a noi, Tatiana Maslany torna idola come non mai a interpretare Sarah Manning e tutte le sue sorelle cloni, sempre egregiamente. In questo episodio si cerca di riannodare le fila degli eventi precedenti e si gettano le basi per quello che arriverà. Ho adorato l’inquietante scena del sogno di Helena e della sua idea di una vita in rosa, per poi ritrovarsi chiusa in una scatola e in compagnia di uno scorpione gigante che – pensa un po’– parla. Tipo il grillo parlante di Pinocchio, solo centomila volta più spaventoso. Intanto Sarah è sempre più incazzata e si ritrova come sempre impegnata a salvare la sua famiglia e anche le sue ovaie. Delphine, subentrata al posto di Rachel, la convince a fingersi la sua gemella cattiva per scoprire i piani segreti dell’Autorità e, nonostante la camminata e la postura da camionista, riesce a ingannare tutti e in special modo il viscido Ferdinand, che vuole essere solo sculacciato da Rachel e  continua a parlarle di  eliminare Sarah, di Helsinki e del piano segreto collegato. Si ok, ma quale piano??? A proposito di Delphine, la francesina non solo spezza il cuore di Cosima, ma mi diventa anche torturatrice di Rachel, confermando tutti i sospetti che ho su di lei dalla sua prima entrata in scena. Parliamo, poi, della grande novità di quest’anno, i cloni maschi. Qualcosa deve essere andato storto, perché sono tutti dei pazzi svitati oltre che pericolosi criminali, amano girare nudi e sparare alla gente e naturalmente è la sfortunata sestra Helena ad avere il privilegio della loro compagnia. Splendida, infine, Allison, che nei panni di Sarah non è assolutamente credibile, ma vedere le due sorelle insieme mentre fingono di essere altre sorelle cloni è uno di quei momenti surreali che solo Orphan Black rende possibili.

 

Arrow 3x19 – Perché fa male, male da morire…

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A noi fan di Arrow piace stare male. Già Oliver non è l’eroe tra i più allegri, sempre con il muso, che se non fosse così figo sai che barba tutta questa brutta attitude da “ce le ho tutte io, non mi toccare, sono sfigato, lasciatemi solo, perché sono solo, ce l’avete tutti con me, uno contro tutti non vale, il mondo mi odia, addio”, ma questa serie ha deciso di sbriciolare i nostri poveri cuoricini di episodio in episodio. E questa volta il malessere raddoppia. Ci era voluta un’intera settimana per prepararmi all’addio di Roy Harper (Colton Hayes) – e non vi dico l’angoscia quando ho creduto che l’avessero davvero pugnalato in prigione – e poi, quando ormai Arsenal è partito e la lacrimuccia l’avevamo già versata, ecco la sorpresa. In una lotta impari con Ras’ a ghul, Thea viene trapassata da parte a parte e lasciata agonizzante in una pozza di sangue. Sarà morta davvero? E quanto male la prenderà il povero Ollie? Si preannunciano legnate belle pesanti e sì che saranno dolori

 

E per questa settimana è tutto! Buona visione!

Il Maggio dei Libri 2015: i 7 titoli con cui vi spiego perché leggo

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Arriva quest’anno la quinta edizione di Il Maggio dei Libri. Un periodo di eventi e iniziative volte a trasmettere un messaggio importante e vitale: leggere fa crescere e fa meravigliosamente bene. Un progetto che parte con la Giornata Mondiale del Libro e si snoda fino alla fine di maggio, promuovendo l’abitudine alla lettura e l’idea di libro come amico e compagno di vita.

Anche in un periodo di magra come quello che (ormai da parecchi mesi) sto vivendo, continuo a credere che non c’è conforto migliore di quello che trovo tra le pagine di un libro. I libri sono i miei migliori amici da sempre e, come ogni bibliofilo che si rispetti, riescono a regalarmi gioia non solo con le loro parole ma anche con la loro semplice presenza. Li vedo spuntare dalla borsa, fare capolino dal comodino vicino al letto, irrompere con un tonfo nel silenzio di un pomeriggio da uno scaffale sempre troppo pieno, accomodarsi in valigia negli angoli ancora vuoti, arricciarsi per quella goccia d’acqua caduta per sbaglio, macchiarsi d’erba la prima domenica al parco, reclamare attenzione aprendosi a metà sulla mia faccia assonnata, svegliarsi con me al mattino scivolando tra le coperte quando mi alzo per dare inizio a una nuova giornata.
Il rapporto tra un lettore e i suoi libri è qualcosa di intimo e privato, unico da persona a persona e non sempre facile da spiegare. Così, per celebrare un mese che amo molto, ho deciso di spiegarvi perché io leggo attraverso sette titoli di libri letti nel corso degli anni, che rappresentano altrettanti motivi del mio amore per la lettura.
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1. Stupore e tremori (A. Nothomb)
Leggere un libro è un’esperienza che produce meraviglia. Le storie raccontate portano con sé misteri e inaspettate verità, ma anche personaggi fantastici e scenari immaginifici. Lo stupore si fa strada nel nostro animo mentre i nostri occhi macinano righe su righe di parole, regalandoci un’esperienza unica e indimenticabile, capace di provocare di volta in volta brividi e tremori, a volte di paura, quasi sempre di piacere.

2. La bellezza delle cose fragili (T. Selasi)
L’equilibrio tra libro e lettore è delicato e molto spesso fragile. Un libro ti conquista poco a poco e poi, si sa, basta una giornata no o un periodo intenso per cambiare la nostra impressione del mondo e di ciò che stiamo leggendo. Ci saranno libri che amerete subito e libri che faticheranno a entrare nelle vostre grazie. Ma è in questo gioco di incastri, di sussurri tra le pagine, di pazienti attese e improvvise intese che si nasconde la bellezza di un rapporto mutevole ma destinato a perdurare nel tempo.
3. Possessione (A. Byatt)
Perché a noi lettori piacciono i libri anche come oggetto. Toccarli, accarezzarli, piegarli, sfogliarli, annusarli… vogliamo sentirli nostri e appropriarcene in ogni loro componente. Possedere un libro, una volta che ne si sono fatte proprie le sue parole, è anche un’ancora di salvataggio: avremo sempre la certezza che c’è un amico che ci aspetta.
4. Una stanza tutta per sé (V. Woolf)
Leggere crea angoli, nascondigli, piccoli eremi in cui raccogliersi e dedicarsi all’attività che ci piace di più fare. Ognuno di noi ha il suo spazio perfetto, la nicchia in cui lasciarsi andare in compagnia dei nostri amici di carta. Se per Virginia avere una stanza per sé era la condizione necessaria per scrivere, per me avere una stanza in cui ci sono dei libri che mi accolgono è la più confortante e piacevole situazione che un lettore possa incontrare.
5. Le notti bianche (F. Dostoevsky)
Perché tra le notti che ricorderemo con più affetto nella vita ci sono di sicuro quelle passate in bianco in compagnia di un libro che non ci vuole mollare, incapaci di abbandonare protagonisti e vicende, di obbedire alla nostra auto-imposizione “Questo è l’ultimo capitolo” e continuare a voltare pagina, curiosi ed entusiasti, per non dare fine alla magia fino in fondo.
6. Nessun dove (N. Gaiman)
Leggere è il modo migliore per viaggiare con la mente quando si è costretti a rimanere nello stesso posto. Un viaggio verso luoghi esotici e sconosciuti, epoche lontane e nostalgiche, mondi fantastici e pianeti ancora da esplorare. Sono luoghi del cuore di cui il libro è il portale e la strada la conosci solo tu.
7. Non lasciarmi (K. Ishiguro)
Perché poi arriva l’ultima pagina, l’ultima frase e all’improvviso ci si sente un po’ orfani. Ci guardiamo indietro e scorriamo l’avventura vissuta con un pizzico di nostalgia. E cerchiamo di far durare il più possibile quelle parole che ci separano dalla fine. Ma è quando arriviamo alla conclusione che ci rendiamo conto che un libro non può lasciarci e non ci lascerà mai: si accoccolerà in un piccolo andito del tuo cervello e del tuo cuore e riemergerà di tanto in tanto per regalarti ricordi ricchi di commozioni e sensazioni di benessere. Di tanto in tanto mi piace tornare con la memoria a quei personaggi che hanno significato tanto per me, a quei luoghi che ho adorato visitare solo con la mia immaginazione, rivivere quei momenti che ho amato molto e mi hanno fatto versare persino qualche lacrima. Un libro è per sempre e non c’è dono migliore che leggere e scoprire che non sarai mai più solo.

Buon Maggio dei Libri a tutti!

Serie TV: Favs of the week #5

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Settimana intensa, mancano davvero poche settimane alla conclusione di molte delle serie in onda tra quelle “annuali”, e gli ultimi episodi stanno regalando svolte narrative interessanti e scene col botto. E mentre ci vediamo costretti a salutare personaggi a cui forse non ne eravamo – e non lo saremmo stati mai – pronti a dire addio, i nostri poveri feels vengono continuamente messi in subbuglio e a noi non resta che tenersi pronti per il prossimo capitolo in arrivo. Come sempre, ATTENZIONE SPOILER!

Quote of the week


Grey’s Anatomy 11x 21 – In loving memory of McDreamy

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Chiamarlo proprio “episodio preferito” della settimana sembra eccessivo, lo ammetto, ma di sicuro l’uscita di scena di uno dei personaggi più amati della Tv, nonché pilastro del medical drama più famoso degli ultimi dieci anni, non è cosa che può passare inosservata e merita tutto lo spazio necessario. Io sono ancora sotto choc. Non che non si sapesse, però un conto è saperlo o intuirlo, un altro è stare lì davanti all’episodio e sperare che sia tutto uno scherzo e che a breve tutto si risolverà felicemente. Ma Shonda Rhimes non è donna dal cuore tenero, questo lo sappiamo bene, e così asseconda la decisione di Patrick Dempsey di lasciare la serie che lo ha reso celebre architettando uno, anzi due episodi (se si conta anche quello della scorsa settimana, funzionale e di preparazione a quest’ultimo) capaci di struggere anche l’animo più coriaceo. McDreamy, il dottor Stranamore, il bello e geniale Derek Shepherd, non è più con noi. Valli di lacrime, ma quello che più ci lascia amareggiati e distrutti è come Derek sia uscito di scena. L’episodio puzzava di tragedia fin dai primi minuti, quando la sorella, la Bailey e Kepner gli sconsigliano di prendere scorciatoie per l’aeroporto. Ma quando mai Derek ascolta qualcuno, e infatti si caccia subito in un mare di guai. Un super incidente, con feriti molto gravi, che lui riesce a salvare brillantemente, uscendone praticamente illeso. Il voler mettere l’evidenza sulle sue doti da eroe, quella frase così iconica (“It’s a beautiful day to save lives”), il suo sorriso che genera svenimenti constanti in noi spettatrici, rende ancora più straziante il momento in cui, quando sembra che il peggio sia passato, ecco che tutto accade. Da qui in poi solo pianti e stridor di denti, con Derek semicosciente che praticamente dà degli imbecilli ai dottori che tentano di salvargli la vita e una serie di flashback di lui e Meredith, dal primo incontro all’ultima riappacificazione che fanno emergere in noi la tremenda consapevolezza. Derek se ne va e lascia sola Meredith, ma soprattutto lascia soli noi con Meredith. Perché Derek non era di sicuro l’uomo perfetto e, tra l’egocentrismo e il complesso della rockstar, ci ha regalato molti attimi di irritazione pura, ma della coppia era la parte migliore, ché un marito del genere Mer non sempre ha dimostrato di meritarselo. E ora, alla tristezza dell’addio di McDreamy, si aggiunge l’angoscia di doversi sorbire tutte le paturnie e le lagne di Meredith, che in quanto a lamentarsi fino a livelli da psicopatica è regina incontrastata. Infine, sorge la domanda: dopo la partenza di Cristina e la morte di Derek, lo show non ha ormai perso di senso? La sola presenza di Meredith può davvero bastare? Non sarebbe invece meglio chiudere i battenti e dare una naturale e ormai necessaria conclusione a uno show che ci ha dato tanto ma che ormai è semplice routine, un guilty pleasure di cui non riusciamo a fare a meno, ma per il quale dovremmo invece seguire l’esempio di Mer e “staccare la spina”? Staremo  a vedere, intanto Ciao Derek e grazie di tutti questi meravigliosi anni di sorrisi e sguardi ed emozioni, sesso in tutti gli angoli dell’ospedale, operazioni impossibili, drammi e crisi apocalittiche varie e di quell’amore appassionato, incondizionato, indistruttibile vissuto con Mer che tutti speriamo di trovare nella vita.


Arrow 3x20 – Fantasticamente Olicity

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Ancora Arrow. Sul finire di stagione, la serie dell’arciere più figo de pianeta regala tanta azione e momenti di grande intensità. Dopo averci girato attorno per diversi episodi, sembra finalmente chiaro il percorso che il nostro Oliver deve compiere e tutte le insidie che si nascondono nell’accettare il ricatto di Ras’ Al Ghul e diventare il suo erede. Ma questo episodio passerà agli annali soprattutto per lo sviluppo della liason amorosa tra Olilver e Felicity, che qui finalmente fa un bel passo avanti e possiamo così assistere a scene in cui i due appaiono avvinghiati l’uno all’altro come non avremmo immaginato nemmeno nelle nostre più floride fantasie. Miei cari compagni di ship, non c’è stata gioia più grande che vederli dichiarare il proprio amore, in un’atmosfera talmente romantica che mi sono sciolta come un cioccolatino al sole. Con Ray uscito di scena in 3, 2, 1 e l’aver finalmente dato spazio ai loro sentimenti, l’unica preoccupazione è cosa farà Olly ora che ha deciso di rimanere con Ras. Riuscirà a salvare se stesso da un crudele destino e tornare dalla sua Felicity? Incrociamo le dita.

Gotham 1x19-20 – 50 sfumature di Milo

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Amo Milo Ventimiglia dai tempi di Gilmore Girls. Jess resterà per sempre il ragazzo che per una come Rory era troppo ma che, fortunata lei, aveva occhi solo per quella saputella con sguardo da cerbiatto. Poi l’ho seguito come Peter Petrelli in Heroes, almeno fino a quando è stato umanamente possibile seguire quella serie, e non vi dico a che livelli di adorazione si può arrivare quando uno dei tuoi attori seriali preferiti è anche un supereroe. Immaginate quindi la GIOIA nello scoprire che Milo avrebbe preso parte a Gotham per ben 3 episodi e pazienza se il suo ruolo è quello di un cattivone modello Christian Grey più dark e più inquietante. Con una strizzatina d’occhio neanche troppo velata alle 50 sfumature, il personaggio di Milo, infatti, ha tendenze sadomaso ed è uno squilibrato che uccide le sue fidanzate incapaci di essere la donna che lui vorrebbe con sé. Inutile dire che Milo nella parte del bad boy dà sempre il meglio di sé  e per il nostro Jim Gordon non sarà tanto facile risolvere il caso. Se poi scopri che il padre del super cattivo è interpretato da Daniel Davis, ovvero il mitico Niles della Tata, sarà impossibile non adorare le guest star e le comparsate tra una serie e l’altra.

Special Finale Season: The Americans 3x13 March, 8 1983

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Questa settimana si è conclusa anche la terza stagione di The Americans. Come ho già detto in altre occasioni, questa terza stagione ha avuto un andamento molto più coerente e strutturato della seconda e da ciò la serie ha tratto notevole giovamento. Gli autori hanno infatti dimostrato una grande pazienza e tutta la loro maestria nel saper incanalare personaggi e vicende e costruire pezzo dopo pezzo una stagione che trova nel finale una piena realizzazione, la conclusione delle tematiche centrali in questo ciclo di episodi e l’apertura a temi ben più grandi, in uno snodo narrativo che se da un lato chiarifica e dà il senso di certe azioni e parole, dall’altro ribalta situazioni e lascia tutti noi nel dubbio circa il futuro. Questa stagione è stata probabilmente quella più intimista e riflessiva della serie, dove il focus sui personaggi non cade più sul rapporto tra loro e la missione che devono svolgere (Philip e Elizabeth come spie, Stan come agente FBI e Nina come collaboratrice di un Paese nemico), ma sul rapporto con la propria identità e i propri sentimenti e convinzioni. In questo senso può essere vista la vicenda di Philip. Fin dalla prima stagione, Philip si è dimostrato l’anello “debole” della coppia di spie, quello più incapace di tenersi federe al grande ideale o forse più capace di guardarsi dentro e accorgersi che non basta l’idea di un bene superiore a giustificare qualsiasi tipo di azione. La confusione e l’incertezza sul suo operato si accentuano nel corso degli episodi, mentre il sacrificio di Annalise, la relazione con Kimmy e la crisi con Martha mettono sempre più in dubbio la sua fiducia nella causa. A far traboccare tutto poi, saranno le vicende legate ai suoi figli: il suo primogenito, mai conosciuto, sta per partire per una guerra sbagliata in tutti i sensi e Paige si trova nel mirino del Centro, che ne vorrebbe farne un’agente di seconda generazione. La dinamica genitori-figliè l’altro argomento centrale di questa stagione, che in qualche modo porta a identificare o meglio a chiarire le identità dei protagonisti in gioco alla luce di ciò che questo rapporto parentale e filiale comporta. Se per Philip il raccontare la verità a Paige è l’elemento scatenante di unosgretolamento della propria identità che non trova rimedio e la presa di consapevolezza di essere solo e di non poter comunicare a nessuno il suo stato d’animo, men che meno con Elizabeth, per quest’ultima il poter rivelarsi con la figlia è dapprima una speranza e poi una sconfitta. Elizabeth riesce a mantenere uniti i pezzi del proprio IO grazie alla sua totale adesione alla missione e al suo scopo ultimo, quel bene superiore di cui la sentiamo parlare persino con la figlia nel momento in cui le racconta cosa mamma e papà fanno mentre lei dorme serena nella sua stanza. Per lei, aiutare Paige a scoprire la verità e magari unirsi alla sua lotta sono un ulteriore conferma che ciò che sta facendo come spia infiltrata è giusto e necessario, ma è anche la possibilità di avvicinarsi a quella figlia che i segreti l’hanno costretta a tenere sempre a una certa distanza. La reazione di Paige, tuttavia, la mette di fronte all’amara realtà: lo sdoppiamento continuo che rappresenta la sua identità, con la quale non è ancora pronta a fare i conti, le impedisce di comprendere la sofferenza della figlia e la sua incapacità di convivere con una verità enorme che inevitabilmente finisce per cambiarti, mentre Paige non è ancora pronta a quel cambiamento. La telefonata al pastore Tim, quel confessare in lacrime che i suoi genitori non sono americani ma russi, è la chiave di volta di tutta la stagione e probabilmente anche della prossima. Il segno di uno stravolgimento degli equilibri in cui la famiglia non è più porto sicuro ma un covo di menzogne e sospetti, dove la scelta non è più l’unione per essere forti ma l’individualismo per difesa, e di tal atteggiamento ne è simbolo il giovane Henry, il quale per tutta la stagione appare solo e abbandonato da tutti, che ha fatto della sua solitudine la corazza al malessere che avverte esserci nella sua casa e nella sua famiglia. Parallelamente, alla situazione familiare si affianca quella politica, dove sul finire dell’episodio ascoltiamo Reagan parlare di un Evil Empire che sembra preannunciare nulla di buono per il prossimo anno. La terza stagione di The Americans termina così, con un atmosfera cupa che grida incomunicabilità, sfiducia, frustrazione e dolore, ma che conferma l’eccellenza di scrittura di una delle migliori serie tv in circolazione e la bravura di attori perfettamente capaci di calarsi in personaggi dalle molteplici e tanto complesse sfumature senza  perdere il senso della loro interpretazione. L’unica critica che viene da fare è il poco spazio lasciato a Nina, quest’anno in Russia e parecchio in disparte rispetto agli eventi raccontati, ma confido in un suo grande ritorno nella prossima stagione, che potrebbe essere l’ultima ma ora come ora non voglio preoccuparmene.

Buona visione a tutti!

Gotham (2014- )

Serie tv: Daredevil, l’eroe più cupo della Marvel colpisce nel segno

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Se c’è una cosa che ho sempre amato dei supereroi è la loro fragilità. Forse perché in questo modo appaiono ai miei occhi molto più umani di come normalmente li si rappresenta. Se c’è chi ama prodezze e scontri epici, io preferisco intravedere l’uomo (o la donna) che si cela dietro la maschera, scoprire che in fondo, anche se può volare o è un ottimo arciere o ha una velocità sovrumana e i sensi ipersviluppati, anche lui ha dubbi, incertezze, paure e commette errori. Sarà per questo che ho apprezzato fin da subito Daredevil, la nuova serie targata Netflix lanciata il 10 aprile scorso e basata sull’eroe della Marvel che ha già riscosso un grande successo di critica e pubblico. Le atmosfere cupe di una città come New York sempre sull’orlo del disastro e più misteriosa che mai e le capacità del protagonista di guardare davvero ciò che la vista spesso nasconde fanno di Daredevil una serie di grande spessore narrativo, ottima scrittura e altrettanto ottima interpretazione, nonché con una forte identità. Una serie che è un passo in più e decisamente una novità nella rappresentazione del mondo comics, un’evoluzione matura dell’universo dei supereroi a cui assistere è davvero un gran piacere.

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La serie racconta la storia di Matt Murdock, giovane avvocato nato e cresciuto a Hell’s Kitchen, reso cieco da un drammatico incidente avvenuto quando Matt è una bambino di nove anni, dove i suoi occhi vengono a contatto con agenti chimici che li danneggiano per sempre, ma per contro portano Matt di sviluppare i propri sensi a livelli sovrumani, consentendogli di osservare il mondo in una maniera più acuta e profonda. Saranno queste doti che gli daranno la possibilità, grazie anche agli insegnamenti del suo mentore Stick, di allenarsi e sviluppare quelle capacità da vero combattente che servono Matt nella sua causa, ovvero salvare la sua città e tutti coloro che sono vittime di uomini corrotti e oppressori e che non trovano nella legge la speranza e quella giustizia di cui hanno bisogno. Proprio il profondo senso di giustizia porta Matt a svolgere il suo lavoro di avvocato, insieme all’amico Foggy, nelle aule del tribunale al mattino, mentre di notte veste i panni del Diavolo di Hell’s Kitchen per garantire la sicurezza contro tutto ciò che c’è di marcio nella sua città, soprattutto contro criminali come il boss Wilson Frisk e il suo regno del terrore ancora incontrastato.

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Daredevil si apre la sua strada lento, cupo, ma inesorabile. Si spoglia di tutte le sovrastrutture tipiche delle narrazioni che traggono origine dalle gesta dei supereroi per cercare con le unghie e con i denti una propria identità. In Daredevil non ci sono battute gigionesche o entusiasmi sopra le righe e ben poco giustificati. In Daredevil fin da subito è chiaro che il percorso del protagonista è avvolto nell’oscurità: scura è la notte in cui si muove, scuri sono gli abiti di indossa (prima della famosa tuta con le cornette), oscuri sono i pensieri e le azioni degli uomini che Devil vuole fermare. Le prime scene del pilot sono dure, forti e violente, al punto da lasciare lo spettatore attonito, smarrito da un inizio inaspettato ma che serve a dare il tempo all’intera serie, mettendone in evidenza la cifra stilistica e il tono che incontreremo nei prossimi episodi. Matt persegue la missione a cui ha votato la sua esistenza, anche se questa costerà sangue e dolore, anche se questa comporta il superare certi limiti e l’andare oltre la propria morale e ciò in cui si è sempre creduto. Se la giustizia che Matt cerca sembra essere impossibile da trovare attraverso le vie legali “tradizionali” e pertanto pare giustificarlo nelle sue azioni, la fede e il continuo riferimento al cattolicesimo lungo tutta la serie è il contraltare con il quale il nostro eroe deve far i conti di volta in volta. L’onnipresente questione se essere un vigilante è una cosa giusta o totalmente folle, grande interrogativo che procura sempre momenti di sfiducia e segna i passaggi di transizione e trasformazione di ogni eroe, qui si colora di connotazioni legate al concetto di fede, non solo prettamente religiosa, ma anche intesa come adesione a una certa morale e a regole etiche che inevitabilmente vengono stravolte quando Matt indossa la sua maschera e va in cerca del cattivo da punire. La questione si riaffaccia più volte durante la stagione, come la prima volta che Matt incontra Claire (interpretata dalla bella e brava Rosario Dawson), la quale appare spaventata, nonostante l’attrazione che prova per Devil, da quella rabbia che Matt cova in modo inesauribile, o nel confronto con l’amico Foggy, che non solo si sente tradito dal segreto dell’amico ma è anche incapace inizialmente di comprendere come Matt riesca a sopportare il peso delle sue azioni. Nell’economia della serie, il dubbio etico finirà per estendersi a una più vasta dicotomia bene/male o luce/oscurità che investe anche altri personaggi, come ad esempio Karen, incapace di vedere la linea da non oltrepassare pur di raggiungere quella verità che nessuno sembra voler vedere, o lo stesso Fisk da giovane, e dilaga fino a caratterizzare la serie stessa, trovando,  infine, la sua massima interpretazione, nel dualismo tra Murdock e Fisk. I due antagonisti vengono seguiti quasi in parallelo, mostrandone crescita ed errori, paure e punti di forza, mentre una narrazione sapientemente cadenzata da dialoghi formativi, momenti di azione al cardiopalma e altri molto più rilassati ma altrettanto importanti per la costruzione degli archi narrativi e il delineamento dei vari personaggi, dispone i vari tasselli e accresce l’attesa per l’inevitabile scontro finale.

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Daredevil è una serie divisa in 13 episodi, ma, cogliendo appieno l’occasione di Netflix che rilascia le stagioni in blocco, si sviluppa come un unico grande episodio, un film lungo 13 capitoli, in cui la scrittura affonda a piene mani nella psicologia dei personaggi, la porta in superficie, ne mette in mostra luci e ombre, costruendo delle sequenze narrative che scavalcano il semplice limite dell’episodio per proseguire naturalmente in quello successivo, dando la visione globale di un disegno molto più composito e articolato rispetto a quello tradizionale da produzione televisiva. Il risultato è un prodotto di notevole spessore narrativo, dove la scrittura attenta e curata si affianca a un’interpretazione dei personaggi in cui nessun comprimario è lasciato in disparte, ma dove ogni arco narrativo contiene più spunti, più storie, crea legami e relazioni e regala una Storia completa di ogni sua parte e di tutti i suoi componenti. Charlie Coxè ottimo nella parte di Matt/Daredevil, ma anche Elden Henson riesce nel suo compito di dare profondità al personaggio di Foggy Nelson, che rischiava più di tutti di rimanere l’amico simpatico e buffo e nulla più e che invece si dimostra essere la perfetta spalla dell’eroe. Dalla pare dei cattivi Vincent D’Onofrio ci regala un temutissimo e inquietante Wilson Frisk, ma in genere l’intero reparto villain appare convincente, mai caricaturale ma sempre con quel pizzico di brivido e di fascino che solo il male sa dare. La realizzazione della serie rispecchia poi le atmosfere e il mood dei personaggi: la fotografiaè un concentrato di colori saturi che virano al nero e si va dai rossi che ricordano il sangue ai gialli e verdi dei vicoli e dei capannoni abbandonati, con un unico sprazzo di luce bianca dato dal quadro che Fisk compra nella galleria di Vanessa e che qui abbandona il suo simbolo di purezza per divenire qualcosa d’altro, ben più angosciante e gelido. Armoniose appaiono, poi, le scene di combattimento, che mettono in evidenza l’impressionante equilibro, la grazia e la maestria di Matt nella lotta e ne segnano l’evoluzione di episodio in episodio, trovando il culmine non tanto nella battaglia finale, che appare quasi frettolosa, quanto nello scontro con Nobu, dove ogni ferita ha significati doppi e scandisce il ritmo dell’episodio in maniera perfetta. Come non citare la sigla, splendida nel suo essere apertura e simbolo dell’intero universo del Diavolo di Hell’s Kitchen, con quella colata di sangue da cui emergono i tratti distintivi e i temi principali della sua saga.

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Daredevilè un gran bella serie, che sintetizza con cura e sapienza il mondo dei fumetti con altri generi come il noir e il thriller, in una miscela vincente, che non lascia adito a dubbi e perplessità. Un prodotto in grado di ritagliarsi il suo spazio in maniera intelligente e ragionata, fornendo una nuova e più matura interpretazione dell’universo “sueperoistico” all’interno della produzione seriale. Una grande storia raccontata con grande tecnica e e abilità, modi poco tradizionali ma di sicuro effetto, nonché ottimamente interpretata, capace di rispettare le aspettative e crearne di nuove, che ne fanno una delle migliori serie del 2015.

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Serie TV: Favs of the week #6

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Nuova settimana, nuovi momenti seriali. Pima di elencare i preferiti della settimana, è dovuta una menzione alla notizia principale di questi giorni: dopo quattro stagioni di vendette, outfit, pettorali in mostra, party esclusivi, geni incompresi, catfight, bei ragazzi come se piovesse, genitori redivivi e bellocci friendzonati, Revenge ci lascia con il finale di questa stagione, in onda prossimamente. Una serie che già da diverso tempo manifestava debolezze e confermava il suo non poter essere più longeva di così senza scadere nel trash estremo. Come soap opera di livello alto, però, ci ha offerto grande intrattenimento e solo la noia della seconda parte di questa stagione, che sembrava non avere alcune direzione, ha convinto l’emittente ABC a dare il colpo di grazia. A ogni modo, non possiamo che ringraziare Revenge per alcune scene così trash da rimanere negli annali della storia della serialità televisiva e per averci permesso di scoprire personaggi come Victoria, regina degli intrighi dall’alto del suo trono, quella poltrona che resterà per sempre il più grande feticcio seriale da tutti noi molto amato. #GoodbyeRevenge

Come sempre ATTENZIONE SPOILER!

Quote of the week

(chiaro il riferimento?)

Grey’s Anatomy 11x22 –Two is meglio che one (vai con le lacrime)

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Doppietta di GA in questa rubrica, con la seconda comparsa a distanza di una settimana dal “fattaccio”. La nostra Shonda, infatti, ha ben pensato di regalarci un episodio gigante di Grey’s Anatomy, di quasi due ore, tutte per noi e i nostri feels! Durante il mega episodio ci viene raccontato come gli altri dottori hanno preso (male, molto male) la morte di Derek, per continuare e triturarci il cuore con immagini strazianti di gente che non ce la fa ad andare avanti (quasi come noi). Non manca, naturalmente, il colpo di scena: la cara Meredith scompare nel nulla per quasi un anno durante il quale ha il tempo anche di portare avanti una gravidanza e dare alla luce una bimba!! Cooooosa?!? Momenti di commozione chevvelodicoaffa’, ma il grande dilemma della puntata è proprio la durata di questa gravidanza: osservando il tempo trascorso nell’arco dell’episodio, mi sembra chiaro che Meredith sia un’aliena e che nel mondo di GA le gravidanze durino 10 mesi e non nove come per noi comuni mortali. Fateci caso e vedrete che i conti non tornano. Ciononostante, posso tranquillamente affermare che di questo super episodio se ne sentiva un po’ il bisogno e che, forse, mi sono commossa più questa settimana che non quella passata. Trattasi di addio definitivo, un commiato dovuto e sentito, che se da un lato ci distrugge, dall’altro ci aiuta ad andare avanti. Perché, come Ellis Grey continua a ripetere alla figlia Meredith, la giostra continua e c’è tutta una stagione ancora da portare a casa.

Once Upon A Time 4x20 – Zelena novella Brooke Logan

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A proposito di soap opera. Zelena ha fatto il suo ritorno in OUAT e non senza fare danni e spezzare il povero cuoricino di Regina, per la quale ormai mi sembra giusto tifare e supportare visto che è probabilmente il personaggio migliore della serie e si è rivelata essere la meno oscura, falsa e psicolabile rispetto a tutti gli altri protagonisti che, tra buoni e cattivi, hanno dei grandi problemi e innumerevoli paturnie. Per Regina, però, il “mai una gioia” è ormai diventato regola di vita e così, dopo aver deciso di accompagnare la Salvatrice, che sta vivendo un momento di ribellione tardo post-adolescenziale (sedatela!), nel suo viaggio alla ricerca della sua nemesi, nonché figlia di Maleficent, Lilith, ed essere giunta a New York per salvare l’amato Robin dalle grinfie della sorellastra travestita da Mariam, ecco che ci troviamo di fronte all’ennesimo colpo di scena non facile da digerire: zitta zitta, quatta quatta, Zelena è riuscita a impalmare l’arciere e a dare a tutti la lieta notizia, ovvero l’essere in attesa di un baby Robin! E ora? Beh innanzitutto direi di mandare a quel paese Robin, ancora una volta  capace di dire di No alla donna che dovrebbe amare, che con i suoi codici morali ha rotto! Avverto già pianti e stridor di denti e, arrivati a questo punto, se Regina vorrà tornare a essere la nostra amata Evil Queen io non potrò assolutamente darle torto.

The Flash 1x20 – Piovono Spoiler

A poche puntate dal finale di stagione, finalmente ci sono arrivati tutti: il dottor Wells in realtà non è chi dice di essere ma il pericolo Anti-Flash, pronto a far la festa a Barry. Oltre a questa “incredibile” rivelazione, Barry Cisco e Caitlin, scoprono anche la base segreta del velocista cattivo e, tra le varie scoperte fatte, i tre si beccano anche uno spoilerone sulla vita di Barry. Per i fan di Flash non sarà certo una novità, ma ho trovato molto divertente la reazione dei tre di fronti al nome di Iris, che nel futuro si firmerà con i due cognomi, West Allen. E mentre Barry entra in confusione e Cisco dà il meglio di sé (in una delle scene più divertenti della stagione), la disillusione sulla faccia di Caitlin è probabilmente una di quelle visioni che non hanno prezzo! Niente da fare, gli spoiler sono il male!


Mad Men 7x11 – L’inizio della fine

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L’episodio di Mad Men di questa settimana ha già il sapore dell’addio. La Sterling Cooper e soci scopre che presto verrà inglobata in un’azienda più grande e con clienti molto più importanti. Inizialmente Don e gli altri provano a resistere a un destino che fin da subito pare ineluttabile, in una lotta contro i mulini a vento per mantenere il nome e la loro identità. Ma di fronte alle opportunità offerte dalla nuova situazione, non si può fare a meno che tirare i remi in barca e accettare lo scorrere degli eventi per quello che è. La fine dell’Agenzia è il preambolo che aspettavamo e temevamo: Mad Men sta per giungere al termine del suo percorso, che ci ha dato tanto in tutti questi anni, e quindi non si può assistere senza un minimo di turbamento interiore alla scena finale dell’episodio, dove Don e Roger annunciano la fusione e tutti cominciano ad agitarsi e lamentarsi, mentre Don inutilmente tenta di convincerli con frasi come “Si tratta di un nuovo inizio!”, pronunciate con un tonno tutt’altro che rassicurante e subito smentite dallo sguardo smarrito di fronte al defluire della folla di segretarie e dipendenti. No, caro Don, questa volta non ti crede nessuno.


Alla prossima, gente, e buona visione!


BOOK WISHLIST INSPIRATION BOARD: L’invenzione della madre di Marco Peano

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Nuovo appuntamento con le board ispirate alla mia infinita wishlist. Questa volta siamo parecchio a tema, dato che oggi è la Festa della mamma (auguri a tutte le mamme che mi leggono!) e il libro di cui vi parlo è proprio dedicato al rapporto madre figlio, opera prima di uno scrittore che spero tanto di ascoltare al Salone del Libro (voi ci sarete?). Il libro di oggi è L’invenzione della madre di Marco Peano.

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La casa editrice dice:

Questa è una storia d’amore. Si tratta dell’amore più antico e più forte, forse il più puro che esista in natura: quello che unisce una madre e un figlio. Lei è malata, ha poco tempo, e lui, Mattia – sapendo che non potrà salvarla, eppure ostinandosi contro tutto e tutti – dà il via a un’avventura privatissima e universale: non sprecare nemmeno un istante. Ma in una situazione simile non è facile superare gli ostacoli della quotidianità. La provincia in cui Mattia abita, il lavoro in videoteca che manda avanti senza troppa convinzione, il rapporto con la fidanzata e con il padre: ogni aspetto della sua vita per nulla eccezionale è ridisegnato dal tempo immobile della malattia. Un rifugio sicuro sembrano essere i ricordi: provare a riavvolgere come in un film la memoria di ciò che è stato diventa un esercizio che gli permette di sopportare il presente. Ma è davvero possibile sfuggire a se stessi?
In questo viaggio dove tutto è scandalosamente fuori posto, è sempre il rapporto con la madre a far immergere Mattia nella dimensione più segreta e preziosa in cui sente di essere mai stato. Raccontando di questo everyman, grazie al coraggio della grande letteratura, Marco Peano ridà senso all’aspetto più inaccettabile dell’esperienza umana: imparare a dire addio a ciò che amiamo.

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Per la board l’ispirazione di base è la famiglia. Sempre presente, sempre pilastro della nostra esistenza. Ed è quando ce ne allontaniamo, o ne avvertiamo la mancanza, come il protagonista del libro di fronte alla malattia e morte della madre, che probabilmente capiamo tutta l’importanza che ha per noi. Crescendo, si superano quei contrasti inevitabili negli anni della formazione e ci si scopre sempre più propensi al dialogo, al confronto con quei genitori i cui insegnamenti sembrano diventare più preziosi che mai. Ed è inevitabile che pensare a loro scateni un fiume di ricordi che scavalcano le nostre barriere e ci sommergono con il loro carico di emozioni ed affetti. E allora è bene lasciarsi andare e seguire la corrente, e magari trovare lo stimolo giusto per crearne ancora, di ricordi, sempre più belli. E, infine, caricarsi dell’energia che solo l’amore di una famiglia sa dare per riprendere il viaggio e trovare la forza per avvicinare la nostra vita ancora un po’ a quell’immagine che tutti noi custodiamo nel cuore e che vorremmo tanto trasformare da sogno in realtà.

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Titolo: L’invenzione della madre| Autore: Marco Peano | Editore: Minimum Fax |
Anno: 2015 | Pagine: 280 | ISBN: 9788875216337

Salone del Libro di Torino: 5 consigli per un #SalTo15 alla grande

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Da giovedì 14 a lunedì 18 maggio, torna il Salone del Libro di Torino, uno degli eventi dedicati al mondo dell’editoria più amati e importanti, giunto alla sua 28^ edizione. Nonostante non sia la mia prima volta al Salone, devo ammettere che sono davvero emozionata al pensiero di passare un weekend immersa tra libri, incontri con gli autori, discussioni con gli addetti ai lavori e migliaia di appassionati lettori con i quali condividere interessi e curiosità. Amo l’atmosfera che si respira, quell’euforia da giorno di festa, le attese per incontrare quell’autore che ci piace tanto, le reunion di amici e conoscenti, le incursioni tra uno stand e l’altro alla scoperta di nuovi stimoli e di volumi su volumi da aggiungere alla wishlist infinita. Un evento che dura 5 incredibili giornate, dove ce n’è per tutti i gusti e che regala bei ricordi e tanti sorrisi. Non sempre tutto è perfetto e gli inconvenienti non mancano, ma dopo anni di presenze mi sento ormai in grado di destreggiarmi tra i padiglioni, le sale colorate e le file apparentemente interminabili di stand. Ecco allora 5 consigli per godersi al meglio la propria permanenza al Salone.


1) Saltare le code al Salone del Libro è praticamente impossibile, quindi mettetevi l’anima in pace e munitevi di molta pazienza. Si può, però, accorciare i tempi di attesa con alcuni semplici accorgimenti. Per i biglietti, soprattutto se progettate di venire nel weekend, il consiglio resta quello di affidarvi all’acquisto on line, semplice e veloce e la coda sarà più breve. Per quanto riguarda gli eventi e gli incontri, il mio consiglio è di prepararvi un calendario prima del vostro arrivo e calcolare i tempi di spostamento da una parte all’altra del Lingotto. I padiglioni sono grandi e gremiti di gente e non è pensabile raggiungere la Sala Blu dalla Sala Rossa in 5 minuti. Un’idea potrebbe essere di scaricare l’app del #SalTo15 (che io consiglio di scaricare comunque perché molto più comoda delle mappe cartacee che a fine giornata saranno ridotte a brandelli) e salvare gli eventi preferiti in modo che questa emetta una sorta di “sveglia” 10 minuti prima dell’inizio, per darvi il tempo necessario a raggiungere il luogo designato. A volte 10 minuti non bastano, esperienza personale, quindi la cosa migliore è muoversi con un buon quarto d’ora di anticipo, anche venti minuti se la sala non è molto grande.

2) Tra padiglioni e stand, il rischio più grande è quello di perdersi ciò che c’è di davvero interessante. Personalmente vado al Salone del Libro per assistere a incontri, reading, laboratori e a tutti gli appuntamenti offerti dalla rassegna. D’altronde il SalTo è proprio l’occasione giusta per poter assistere a eventi del genere circoscritti a un unico grande spazio e in una sola giornata. L’idea, quindi, è quella di non concentrarsi troppo sugli stand degli editori quanto piuttosto sul calendario fittissimo proposto dal Salone e di strutturare la propria visita sulla base di ciò a cui ci piacerebbe assistere. I giri tra i vari spazi dedicati agli amici libri e agli editori possono passare in secondo piano e divenire un piacevole passatempo tra una lettura e un workshop, dedicando il resto della giornata a tutte quelle manifestazioni culturali che possono arricchirci e stimolarci, diventando uno dei ricordi migliori della nostra permanenza in fiera.

3) Se decidete di prendervi una pausa e fare un giro tra gli stand e fare qualche acquisto, il consiglio in questo caso è di essere curiosi e aperti a tutto il mondo editoriale e non solo ai grandi gruppi. Mi spiace dirlo, ma solitamente i super e mega stand dei gruppi editoriali più grandi sono spesso deludenti, affollati e impersonali e quasi sempre non fanno sconti. Inoltre, il senso del Salone del Libro è la scoperta e non c’è modo migliore che approfondire la conoscenza di case editrici medie e piccole, con i loro stand fatti di passione, alcuni deliziosi, in cui scovare titoli interessanti e persino qualche sconticino in più.

4)Prendetevi il vostro tempo, avete tutta una giornata davanti (anche due se come me farete il weekend pieno) e se sarete in grado di organizzarvi, non perderete nulla di quello che desiderate vedere, senza troppo stress. Guardatevi attorno, fermatevi a fare due chiacchiere con altri lettori, visitate Casa CookBook, gli spazi dedicati al Paese Ospite, che quest’anno è la Germania, o il nuovo spazio dedicato al Piemonte, regione che ospita il Salone. Munitevi di borse e zaini capienti, sarete immersi di mappe, cartoline e qualsiasi altro materiale sarete in grado di raccogliere, partecipate ai giochi, sfogliate tutti i libri che volete, sedete semplicemente a una panchina e godetevi lo spettacolo!

5) Non solo Salone. Fuori dal Lingotto vi aspetta Torino, una città che saprà sorprendervi e che merita assolutamente un pur breve giro turistico. E se non siete ancora sazi di pagine e scrittori, potrete visitare anche le sue belle librerie indipendenti e partecipare agli eventi del Salone Off che costelleranno la città e la provincia negli stessi giorni del Salone.

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I consigli terminano qui, anche se quello che mi sento di augurarvi è di ritagliarvi un’esperienza che sia su misura per voi e risulti indimenticabile. Io vi informo che sarò presente sabato e domenica, cercherò di tenervi aggiornati live tramite la mia pagina Facebook e il mio profilo Twitter, inoltre se siete anche voi al SalTo in quei giorni, fatemi sapere perché mi piacerebbe tantissimo incontrarvi!

Buon Salone del Libro a tutti!

Salone del Libro di Torino: le mie due giornate al #Salto15

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Finalmente riesco a buttare giù e condividere con voi le mie impressioni e idee sul Salone del Libro di Torino 2015. Dopo l’assenza dell’anno scorso, questa volta mi sono voluta regalare due giorni interi per perdermi tra padiglioni e stand e assaporare a pieno l’aria che si respira solo al Salone. Si è trattato di una due giorni di libri, incontri, sorrisi, amicizie, scoperte, anche qualche delusione, code infinite, piedi stanchi ma cuori contenti.



Sabato

Chi mi ha seguito sui vari social lo sa, ho partecipato a diversi incontri, perché è un po’ quello che amo fare quando sono al SalTo. Forse il motivo principale per cui andare a eventi di questo genere, ma di questo ve ne avevo già parlato. Sabato ho così iniziato la giornata in compagnia di Alessandro Perissinotto e Andrea Vitali al Caffè Letterario. Si è parlato di Cina, lavoro operaio e della narrazione come raccolte di storie vere a cui poi l’autore aggiunge una percentuale di finzione che trova la sua sintesi migliore nei personaggi che animano le storie che leggiamo. Altro giro tra gli stand e poi nuovo incontro: Vanessa Diffenbaugh, autrice del best seller Il linguaggio dei fiori, è al Salone per presentare il suo nuovo libro, Le ali della vita. Il mio interesse, però, era tutto per la sua vita, da sempre dedicata ai bambini e ragazzi in difficoltà, al punto da decidere con il marito di adottare due adolescenti e dar loro una casa. Ammetto che l’incontro avrebbe potuto essere più interessante, ma, tra il ritardo nella traduzione simultanea e gli interventi non proprio esaltanti dell’intervistatrice, l’incontro è stato poco più che un abbozzo e l’unica cosa che resta sono i modi gentili della scrittrice californiana.


Il pomeriggio è stato costellato da veloci puntate ai miei stand preferiti – come MinimumFax, Iperborea, Neri Pozza, Passigli, Sur, Jo March– selfie e scatti a suon di hashtag e facce buffe, per poi proseguire con un incontro organizzato da Wired nell’area Book to the Future. Si parla di community writing e della loro influenza nel mondo della narrativa. Wattpad e il social writing hanno cambiato le regole del self-publishing e della narrativa stessa, avvicinandosi a nuove sensibilità, più vicine a una narrazione episodica vicina al mondo delle serie tv – e che forse ricorda quella del feuilleton ottocentesco – e a un mondo dove la comunicazione è istantanea e ciò che vediamo e leggiamo non è altro che quello che abbiamo noi stessi influenzato con i nostri interessi, le nostre opinioni, le nostre critiche, oggigiorno condivisibili nell’immediato e su larga scala. Per il momento il fenomeno Wattpad pare essere circoscritto alle fanfiction, ma c’è da chiedersi, anche guardando ciò che il mercato editoriale offre negli ultimi tempi (vedi le 50 sfumature) se questo non sia il futuro.


Decido di chiudere il pomeriggio in leggerezza: dapprima un salto a Casa CookBook, lo spazio del Salone dedicato all’editoria e alle pubblicazioni enogastronomiche, per ascoltare e vedere all’opera ai fornelli Dario Vergassola, che era lì per presentare il suo nuovo libro La ballata delle acciughe. Vergassola è uno di quei personaggi che vorresti avere in miniatura sul comodino per potermi godere tutte le sue battutine piene di sarcasmo e ironia: al Salone, mentre lo chef Christian Milone preparava per la platea una versione “estiva” della bagna cauda, Vergassola ci ha letto alcuni brani del suo libro e raccontato aneddoti esilaranti della sua famiglia, come la storia della mamma che metteva sulle cozze la mortadella (ma fatevela raccontare da lui, perché merita).


Ultimo appuntamento quello con Vinicio Capossela e il suo Il paese dei coppoloni, candidato al premio Strega. Confidavo in un incontro interessante e ricco di suggestioni, ma purtroppo e mie aspettative sono state disilluse, poiché Vinicio ha tenuto in scacco i partecipanti all’evento con un discorso ricco di giri di parole, pensieri accennati e confusionari, della vera e propria fuffa a cui neanche Sandro Veronesi è riuscito a dare una direzione. Mi sono consolata comprando un paio di libri: Non buttiamoci giù di Nick Hornby, in wishlist da tempo e con il quale ho ricevuto la prima shopper del Salone “Leggere crea Indipendenza”, e L’amica geniale di Elena Ferrante, perché ne avete parlato tutti e sempre così bene che ho deciso di arrendermi e provarci anche io.

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Special guest della giornata, Valentina di Peek a Book, una blogger e un’amica che ho potuto conoscere meglio lo scorso anno a Bologna e che ero felicissima di incontrare per poterla abbracciare nuovamente. Ci rivediamo presto con nuovi libri e nuove serie tv da consigliarci a vicenda!

Domenica

La domenica parte con un ritmo più dolce: una pacifica colazione, quattro chiacchiere e poi a gironzolare per il Salone per il resto della mattinata. Passando per lo stand di La nuova Frontiera sbircio tra i loro titoli, legati alla narrativa dell’America del Sud e Centrale, e mi decido poi per comprare una delle loro splendide shopper. E siamo a due. Passando da Minimum Fax, divento felice proprietaria di A pesca nelle pozze più profonde di Paolo Cognetti e di L’invenzione della madre di Marco Peano, che inizio subito a sfogliare. Ah, arriva anche una nuova borsina, la bellissima #chetenefai shopper di Librerie Therese, con cui è stato amore a prima vista. E tre. Ennesimo passaggio da Neri Pozza, dove mi decido per l’acquisto di La lista di Lisette di Susan Vreeland, a cui tempo fa avevo dedicato una Inspiration Board, e Il diario di una scrittrice di Virginia Woolf, in edizione Beat.

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Dopo un giro nello stilosissimo spazio  dedicato alla Germania, il Paese Ospite di questa edizione, un enorme stand in rosa per chi crede ancora che i tedeschi siano persone serie, è tempo di fare la fila più lunga di tutti il SalTo15: l’incontro con Ferzan Ozpetek sta per iniziare. Ozpetek, che presenta il suo nuovo libro Sei la mia vita, è un personaggio simpatico e dalla grande vitalità, che ama raccontare il suo passato e le incredibili avventure e aneddoti che si sono succeduti nella sua vita. Nelle sue parole tornano anche alcuni personaggi che abbiamo visto nei suoi film, come zia Vera e tutta quella compagine umana che fa subito tornare in mente le atmosfere di Le fate ignoranti e della sua terrazza, mentre i suoi discorsi toccano vari argomenti, inclusi i diritti di cui tutti dovremmo godere, ma che purtroppo nella  nostra società genera cittadini di serie B che incontrano grandi difficoltà per poter ufficializzare la propria relazione e la loro condizione.


Il secondo incontro della giornata è quello con Mario Calabresi. Calabresi con i suoi bei modi ci racconta del suo ultimo libro, Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa. Storie di ragazzi che non hanno avuto paura di diventare grandi, e di una generazione che, nonostante una società che mette paura, può finalmente trovare le forze per affrontare il futuro e forse riuscire a essere degli adulti più soddisfatti. Gli incontri nelle classi e le storie straordinarie di persone ordinarie in cui si è imbattuto nel corso dei mesi ci accompagnano per un'ora piacevole e stimolante. Sentir parlare Calabresi è sempre un piacere e, nonostante ci sia sempre un certo buonismo nelle sue parole, non fa mai male lasciare da parte un po' di cinismo e farsi prendere dal sano ottimismo.

Lascio la Sala gialla per andare a quello che forse è uno degli incontri che più aspettavo di questo Salone. Marco Peano parla del suo primo libro, L’invenzione della madre, al Caffè Letterario e ci racconta questo viaggio nella malattia di una delle persone più care al mondo, la centralità del corpo come involucro che porta alla luce e alla vita ma che è inevitabilmente destinato al declino e alla fine, del momento in cui il protagonista, e chiunque si affacci alla vita adulta, deve fare i conti con l’idea che non siamo immortali, come credevamo da piccoli, e imparare a fare i conti con la morte. L’invenzione della madre è la storia di una famiglia che si ridefinisce attraverso la malattia nonché quella di Mattia che deve imparare a trovare se stesso nel momento in cui si sente più perso al mondo. L’incontro si è rivelato decisamente interessante e alla fine di quell’ora in compagnia di Peano la mia voglia di leggere il romanzo è salita alle stelle. Naturalmente, chevelodicoafare, il libro è passato subito tra quelli in lettura.


Dopo Marco Peano, ci voleva un po' di leggerezza e sano svago. Abbiamo gironzolato per gli stand regionali, in particolare quello della Sardegna in onore della mia amica alla sua prima volta al Salone, abbiamo salutato Linus da Baldini & Castoldi, fatto una visitina ai ragazzi di Electo Radio, web radio che ha seguito la rassegna per tutti i 5 giorni tra incontri e interviste interessanti e ricche di energia. Giunti da Fazi, abbiamo indugiato sui loro titoli e abbiamo chiacchierato un po' con i simpaticissimi ragazzi che si occupavano dello stand. Anche qui ho fatto acquisti: Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, altro libro in wishlist da tempo, con il quale ho ricevuto anche la shopper di Stoner. Questa è felicità.

A chiudere la seconda e ultima giornata del mio Salone ci pensano Chiara Gamberale e Massimo Gramellini. In auditorium pieno, i due autori tornano a presentare il libro scritto a quattro mani Avrò cura di te. L'incontro è l'occasione per scoprire qualcosa id più non solo della storia raccontata, ma anche dell'amicizia che li lega e della loro visione dell'amore. Gramellini sa incantare il suo pubblico, sa raccontarsi a cuore aperto e con grande chiarezza e partecipazione, ascoltarlo è sempre un piacere.

Termina così il SalTo15. Uscire dagli spazi del Lingotto dopo aver vissuto delle giornate così ricche è sempre un brusco ritorno alla realtà. Vivere l'esperienza del Salone rimane per me uno dei modi per ricordarmi chi sono e che cos'è davvero la passione, quali sono le cose che danno gusto alla mia vita e che ci sono migliaia di persone con le quali parlare di tutto questo e sentirmi perfettamente compresa. Ma il Salone è anche la possibilità di parlare di libri e lettura a chi di questi argomenti resa sempre un po' a digiuno e invece vorrebbe parlarne di più, o a chi è semplicemente curioso e magari si farà convincere per essere presente alla prossima edizione.
Il Salone del Libro di Torino è confusionario, stancante, gremito di gente, chiassoso e spesso impreciso e imperfetto, ma è anche fantasioso, intrigante, vitale ed energico, stimolante e mai banale, uno dei momenti migliori da vivere per chi sa cosa significa amare i libri e i mondi in essi contenuti.


Archiviati i ricordi e fatto il conto del bottino raggiunto, non rimane che godersi le pagine che abbiamo deciso di adottare e ripromettersi di non mancare assolutamente il prossimo anno. Un meraviglio SalTo16 ci aspetta.


Serie Tv: Mad Men, uno spot ci salverà

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Dopo sette gloriose stagioni, Mad Menè giunta al termine, con un finale di stagione che ci ha tenuto in scacco fino all’ultimissima scena, dividendo il parere dei suoi fan. Una serie che si è contraddistinta fin dall’inizio, e per ben sette cicli di episodi, per la sua ottima fattura e qualità, tanto di scrittura quanto di recitazione, fotografia e ricostruzione storica. Ambientata tra gli anni '60 e '70, Mad Men ci ha raccontato un mondo lontano ma non troppo, di cui riusciamo a comprendere i pregi e le difficoltà e contraddizioni, non solo, ma ne avvertiamo ancora gli effetti sulla vita odierna. Raffinata e introspettiva, Mad Men ha scavato nel profondo delle vite dei suoi personaggi, mostrandoci luci e ombre, ma anche mantenendo sempre vivo quel gioco di specchi che persino nel finale di stagione non si riesce a sciogliere del tutto, facendo del non detto, dell’elegante sussurrare all’orecchio dello spettatore senza mai rivelare troppo, uno degli elementi più amati e che più ci mancheranno di una serie che ha fatto la storia della televisione degli ultimi anni e ha lasciato un’eredità notevole e un modello da cui trarre ispirazione.





Questa settima e ultima stagione, andata in onda divisa in due parti tra il 2014 e il 2015, ha cercato di districare i nodi delle vicende narrate e delle differenti linee narrative legate ai vari personaggi. Per l’intera stagiona l’atmosfera respirata è stata quella tipica dell’attesa e della curiosità malinconica che solo un epilogo sa dare. Il passaggio a un nuovo decennio provoca degli scossoni nelle dinamiche relazionali e nelle vite dei Mad Men, che si ritrovano quasi tutti alle prese con una crisi di identità e con la sfida di trovare il proprio posto e fare quel salto verso il futuro a cui tutti sono chiamati. In 14 episodi vediamo i protagonisti annaspare, disperarsi, illudersi, per poi riprendere nuovamente la salita, raccogliere le forze e tornare a lottare, o semplicemente fermarsi un attimo, mettere in pausa tutto e avventurarsi in un viaggio alla scoperta finale di se stessi e alla propria accettazione.
Si arriva così a un finale che è un gioiellino e uno smaccato colpo di genio, in cui ogni personaggio incontra il proprio epilogo - alcuni inaspettati, altri naturale conclusione degli eventi – da abbracciare e fare suo.


Prima ancora dei Mad Men, allora, occorre parlare delle Mad Women e di come viene trattata la tematica femminista nella serie, attraverso i due principali personaggi femminili, Peggy e Joan. Le due donne seguono lungo la serie due percorsi diversi eppure intrecciati tra loro: da un parte c’è Joan, una donna che dà dimostrazione di sicurezza e confidenza con l'ambiente in cui vive e lavora, consapevole dei suoi punti forti e convinta di poterli sfruttare nel modo migliore e per i suoi scopi senza agitare troppo quel mondo di uomini che pare guardarla sempre nello stesso modo; dall’altra c’è Peggy, che fin da subito si rivela insofferente agli stereotipi e al ruolo che la società vorrebbe imporle, al punto da cogliere al volo e con tutta l’energia di cui è capace il cambiamento che giunge attraverso Don Draper, l’occasione da non mancare e che, con il doppio dell’impegno e della fatica che avrebbe fatto un uomo, la porteranno a svolgere il lavoro che ama e a raggiungere una posizione autorevole non così comune a quei tempi per una donna. In questi anni, Joan e Peggy hanno dovuto lottare e confrontarsi con una realtà tutt'altro che semplice per raggiungere i loro obiettivi, un percorso che ha plasmato la loro persona e ne ha accentuato i tratti più forti e indipendenti.


E così, sul finire della serie, sorprende vedere la piega che le loro vite prendono e il finale che Weiner riserva loro. Peggy, che si è dedicata anima e corpo al suo lavoro e a difendere con le unghie e con i denti quel rispetto che le era dovuto, ma purtroppo non sempre garantito, tralasciando gli affetti e sterilizzando la sua vita da sentimenti e passioni troppo importanti e travolgenti che la distogliessero dalla sua carriera, trova proprio nell’ultimo episodio quell’amore a lungo tenuto lontano e tanto temuto, nel collega fricchettone Stan - personaggio da me sempre adorato e a cui avrei voluto fosse concesso più spazio –, in una scena che, strano ma vero, rientra nei più classici canoni della commedia romantica e ci emoziona. Joan, invece, continua a lottare per emanciparsi da quell’immagine alla Jessica Rabbit che la società di uomini le ha assegnato, lavorando duramente e rifiutando svariate volte soluzioni molto più comode e facili, ma dalle quali non avrebbe tratto alcuna rivendicazione né affermazione personale: dicendo addio all’ultima sua storia importante che ci viene raccontata nella serie e sganciatasi dalla società con gli altri uomini dell’agenzia, ultimo retaggio di quel supporto al maschile di cui per anni la società le aveva fatto credere di avere bisogno, Joan decide di continuare la sua strada da sola e si rende conto di saperlo fare molto bene, scegliendo il lavoro prima di tutto e dimostrando a tutti di non essere solo un bel paio di tette ma una donna decisa e in carriera, con una casa di produzione di sua proprietà.


Dall'altra parte abbiamo le donne di casa Draper. Il destino che la serie riserva a Betty è quanto mai amaro: la donna, infatti, scopre di avere un cancro in fase terminale e accetta stoicamente la nuova condizione, con una forza d'animo tipica del personaggio, che l'aiuta a sopportare persino l'ennesima intromissione di una società maschilista che non vuole darle voce in capitolo neppure quando si parla del suo corpo, nella scena in cui il dottore spiega a un Henry sgomento che la moglie sta per morire, lasciando la diretta interessata in disparte come se non fosse importante che lei sappia. Non è dunque un caso se, nella panoramica finale sui vari personaggi, Betty ci appare nella sua cucina mentre fuma una sigaretta incurante della sua salute, in un gesto che dolorosamente ci parla di rivincita, libertà e affermazione del proprio sé nello stesso momento. Alle sue spalle, la giovane figlia Sally, che sembra essere destinata a passare ciò che la stessa Betty aveva vissuto con sua madre in passato. Tuttavia, i tempi sono cambiati e Sally ha dimostrato di aver preso i tratti migliori dei suoi genitori, per questo non riusciamo a preoccuparci per lei, consapevoli che la ragazza saprà cavarsela alla grande.


Una conclusione più prevedibile ma perfetto compimento di un percorso che è stato rito di passaggio e formazioneè quella di Pete Campbell. Sette anni fa, Pete attirava tutte le mie antipatie per essere una arrivista sprezzante e snob, incapace di provare empatia per il prossimo e, dall’altra parte, troppo succube delle imposizioni dettate dalla sua famiglia e dall’appartenenza a una certa classe sociale per poter apparire genuino o avere il coraggio di esprimere davvero il suo pensiero. Nel corso della serie Pete non riesce completamente a togliersi di dosso quell’immagine di codardia, meschinità e cattiveria gratuita che sono diventate la sua armatura contro il mondo; tuttavia, Pete vive molteplici fasi di transizione lungo queste sette stagioni e la storia con Trudy e le vicissitudini familiari lo porteranno più volte a riflettere su se stesso e a considerare le sue azioni e le conseguenze da esse causate. Il più delle volte tali riflessioni si risolvono con un’alzata di spalle, per ripartire verso l’ennesimo obiettivo o cliente, la nuova occasione per risplendere e risultare vincente, ma gli anni si fanno sentire e Pete finisce per capire che l’unica cosa che può dare senso a una vita che è sempre apparsa pilotata da altri e non da lui è l’amore per Trudy e la famiglia che loro due hanno creato. E sebbene qualcuno abbia ipotizzato che Pete muoia per causa di un incidente aereo, io preferisco pensare che l’immagine felice di lui insieme a Trudy e la piccola Tammy mentre salgono sul jet privato, verso un nuovo lavoro e una nuova vita, sia il segno di un futuro molto più sereno per Pete, sperando sia diventato meno carogna di un tempo.


Parlando di canaglie, non si può non accennare a Roger Sterling. Roger è rimasto un personaggio mitico per quasi tutta la serie, tra scossoni, trasferimenti, cambiamenti e persino quando aveva dato il benservito a Don. Fedifrago, bugiardo, approfittatore, cazzaro della miglior specie, ha quei modi eleganti da vecchio mondo che lo rendono irresistibile a qualsiasi età e anche con quegli orrendi baffi visti negli ultimi episodi, ma i cambiamenti dell'epoca e l’addio di Cooper lo rendono nostalgico verso una società che non c’è più e desideroso di “mettere la testa a posto” e finalmente godersi un po’ di serenità. Il matrimonio con Marie Calvet è la fine dei suoi giorni da donnaiolo, ma lo champagne e l’aragosta ordinati al bar ci dicono che Roger resterà sempre il solito edonista e a noi la cosa non dispiace affatto. Idolo.


Tutti i riflettori, però, sono ovviamente su di lui. D’altronde non c’è Mad Men senza Don Draper. L’uomo che di episodio in episodio precipita nel turbinio di una vita che si basa sull’ambiguità, su un unica grande menzogna che cresce di stagione in stagione, fino a divenire insopportabile, costretto a portare una maschera che si sgretola così come il mondo attorno a lui. In un’epoca in cui il suo old fashioned ha perso completamente di appeal e che lui non riesce a comprendere del tutto, il passato torna a bussare prepotentemente alla porta e dopo anni di fuga, tra alcol, fumo e molte donne–  nelle quali Don cerca una compagnia che però non riesce mai a colmare il vuoto della sua esistenza poiché mai basata sulla sincerità e l’autenticità di sentimenti –, Don decide di affrontare i suoi demoni e allontanarsi da quella vita che sempre più spesso gli appare ormai come una lunga insopportabile messinscena. La scena in cui Don abbandona la riunione ha in sé grande pathos e tensione drammatica. Don si era convinto che, dopo il baratro dell’alcol, il licenziamento dalla Sperling & Cooper e la successiva riassunzione assecondando molteplici regole, il nuovo lavoro in una delle più grandi agenzie pubblicitarie del Paese gli avrebbe dato la possibilità di ricominciare, ancora una volta, con un nuovo ruolo, un nuovo ufficio e un nuovo volto. Ma l’atmosfera opprimente di una sala riunioni in cui tutti compiono gli stessi gesti, annuiscono alle stesse parole e prendono appunti identici, finisce per sopraffarlo: niente è cambiato e solo lui può prendere in mano la situazione.


Negli ultimi tre episodi vediamo così Don allontanarsi da New York e percorrere gli Stati Uniti sfrecciando lungo le strade che collegano l'Est con l'Ovest. Un percorso che è fuga ma al contempo ricerca, andata e arrivo insieme, rivelazione e scoperta. A ogni tappa del suo viaggio vedremo Don spogliarsi di qualcosa della sua vita e ogni oggetto rappresenterà un fardello di cui il nostro protagonista si disferà quasi con sollievo, fino a quando non decide di lasciare al ragazzo del motel la sua costosissima auto come incentivo e stimolo, in una sorta di passaggio del testimone che lo rende finalmente libero. Sarà questo il segnale che è giunto ormai il momento di confrontarsi con se stessi: Don torna a essere Dick e con l'unica persona ancora a conoscenza del suo segreto, la problematica Stephanie, decide di vivere una nuova e misticheggiante esperienza, quella della comunità hippie. Una scelta insolita che lascia lo spettatore interdetto. Don appare per la maggior parte del tempo un pesce fuor d'acqua, inadatto e fuori posto, "vecchio" con le sue reticenze e i modi di fare impostati, rispetto alle persone che lo circondano, ritrovatisi lì per entrare in contatto con l'altro ed esprimere le loro sensazioni, i loro pensieri e sentimenti. Per Don tutta quell'esternazione è a tratti incomprensibile, per altri versi spaventosa, per altri ancora affascinante. E mentre il nostro protagonista si scioglie e abbraccia uno sconosciuto in cui riconosce la sua vita e quella sensazione di vuoto e solitudine che lo accompagna da sempre, la nostra perplessità aumenta e ci chiediamo se la svolta flower power degli ultimi episodi non abbia finito per prevalere e Weiner abbia deciso di lasciarci con una versione fricchettona di Don Draper, tutto preso da meditazione e saluti al sole, distruggendo così una serie meravigliosa in pochi minuti... quando ecco il colpo di genio.


Don Draper, apparentemente riappacificatosi con se stesso, sorride serafico e nella scena successiva ecco apparire il Sacro Graal della pubblicità, lo spot "I'd Like To Teach The World To Sing" con cui Coca Cola ha cambiato la sua immagine e dominato il panorama dell'advertising per anni, rappresentando la vera rivoluzione che attendeva e di cui aveva bisogno. Un finale che ci esalta, ci diverte, il tocco di classe che riesce a dare un significato a una stagione meditabonda e piena di interrogativi e di fornirci il punto di arrivo di una caduta in volo che dura da sette stagioni.

Con quell'ultima scena, Weiner ha voluto giocare con tendenze e fatti reali, ricalcando ancora una volta la capacità di Mad Men di raffigurare un'epoca per poterla interpretare e e comprendere, per poter ancora una volta collegare i suoi personaggi a un sentimento e una concezione del mondo più universale. Perché Don Draper potrebbe benissimo essere autore di uno spot come quello di Coca Cola. Perché Don, spogliandosi di tutte le scorie accumulatesi da una vita piena di ambiguità e bugie, riesce finalmente a capire chi è davvero, ovvero un uomo dal grande talento, un pubblicitario e un creativo in grado di partorire idee geniali. Don ha finalmente trovato la sua dimensione e il suo posto nel mondo.



Mentre scorrono le immagini degli hippies che cantano su una collina e bevono Coca Cola, termina così il viaggio di Mad Men. Un viaggio straordinario, il racconto dell'american way of life attraverso le sue diverse fasi, fatto con eleganza e intelligenza, costellato di personaggi destinati a divenire vere e proprie icone indimenticabili. Un capolavoro a cui penseremo sempre come uno dei punti più alti raggiunti dalla tv e dal suo ideatore Matthew Weiner, a cui va tutta la mia ammirazione e gratitudine di spettatrice e dipendente seriale.

Fine delle trasmissioni, ma già quanta nostalgia dei nostri Mad Men.






Recommendation Monday: Consiglia un libro che hai letto seguendo il consiglio di altri

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Buon lunedì gente! Il tema di questo Recommendation Mondayè dedicato a tutti i consigli che facciamo e riceviamo e che sono la principale causa delle nostre wishlist infinite e dei portafogli vuoti dopo il passaggio in libreria.

CONSIGLIA UN LIBRO CHE HAI LETTO SEGUENDO IL CONSIGLIO DI ALTRI



Solitamente i consigli migliori io li trovo tra voi amici blogger e siete una fonte inesauribile di spunti e nuovi amori. Tra i vari titoli letti grazie ai vostri consigli, questa volta ho deciso di soffermarmi su due titoli in particolare: il primo mi ha permesso di scoprire una casa editrice deliziosa, che cresce di anno in anno e conquista fan e appassionati da ogni dove; il secondo è un libro che senza le parole di lode di molti di voi non avrei mai letto, esterofila come sono sempre, e invece mi ha dato conferma che in Italia ci sono autori da leggere e apprezzare, per non parlare del tema che mi è stato fin da subito congeniale, trattandosi della storia del cinema. I due libri che vi propongo sono Nord e Sud di Elizabeht Gaskell e L’ultimo ballo di Charlot di Fabio Stassi.



Sono le due polarità geografiche e la maturazione della protagonista a fornire i temi cardine del romanzo: Margaret, trasferitasi da Helstone, fiabesco villaggio del sud, a Milton-Northern, popolosa città manifatturiera del nord, si trova bruscamente immessa nel mondo nuovo, e per molti aspetti irriconoscibile, prodotto dall'industrializzazione. La famiglia Hale, che coltiva valori tradizionali, è totalmente estranea alla frenetica vita del centro industriale in piena espansione, alla nascente lotta di classe fra padroni e operai, all'inquinamento e al degrado sociale. Attraverso l'occhio di un'anima incorrotta, Elizabeth Gaskell rappresenta così la corruzione dei tempi nuovi, e non li condanna. Anzi auspica soluzioni che sintetizzino i due opposti, la vita arcaica e quella moderna, in modo che la prima dia contenuto alla seconda. Grazie al vissuto doloroso, suo e dell'ambiente soffocato che la circonda, la sua eroina acquisisce identità, supera i pregiudizi e apprende una nuova etica, incarnando la "congiunzione" fra passato e futuro, fra uomini e donne, fra padroni e operai. Fra nord e sud.

Dettagli

  • Titolo: Nord e Sud
  • Autore Elizabeth Gaskell
  • Editore:Jo March
  • Pagine:560
  • Traduttori: Laura Pecoraro
  • ISBN: 9788890607608



In una sera di Natale la Morte va a trovare Charlie Chaplin nella sua casa in Svizzera. Il grande attore e regista ha passato gli ottant’anni ma ha un figlio ancora piccolo e vorrebbe vederlo crescere accanto a sé. In un lampo di coraggio Chaplin propone un patto alla Vecchia Signora: se riuscirà a farla ridere si sarà guadagnato un anno di vita. Inizia così un singolare balletto con la Morte, e quella notte a salvarlo non sarà la tecnica consumata dell’attore ma la comicità involontaria che deriva dagli impacci dell’età. La questione però è solo rinviata: anno dopo anno, a Natale, la Vecchia tornerà a reclamarlo e bisognerà trovare il modo di suscitarle almeno una risata. Nell’attesa dell’incontro fatale Chaplin scrive una lunga e appassionata lettera al figlio. Vuole raccontargli la storia vera del suo passato, quella che nessuno ha mai ascoltato, ed ecco che dalle sue parole scaturisce l’avventura rocambolesca di una vita e il ritratto di un’epoca rivoluzionaria. L’infanzia umile in Gran Bretagna, il padre alcolizzato e la madre che perde il senno, l’esordio sul palcoscenico assieme al fratello, il circo e il vaudeville, i primi successi e lo sbarco negli Stati Uniti, dove il giovane Chaplin passa da un mestiere all’altro – tipografo, boxeur, imbalsamatore – e da una costa all’altra. È un orfano a spasso per il Nuovo Mondo, incontra uomini straordinari e gente comune, e dalla loro anima generosa sembrano nascere sempre nuove possibilità. In quegli anni tutto sta cambiando, un fascio di luce su uno schermo bianco ha acceso la fantasia di un’intera nazione. L’America che accoglie Chaplin si guarda allo specchio in quelle prime pellicole, è romantica e vibrante, utopica e capace di qualsiasi gesto, dal più altruista al più vile. È leggiadra come Ester, la cavallerizza che ha incantato l’Europa, e cupa e violenta quanto il Ku Klux Klan. Le avventure di Charlie si susseguono a ritmo frenetico, fra tonfi e trionfi, illusioni e disillusioni, fino al giorno in cui ogni istante di quella vita, ogni emozione e ricordo, si trasformano miracolosamente in qualcosa di assolutamente nuovo. Accade davanti agli occhi stupefatti di una troupe impegnata in un film: un paio di baffetti, una camminata obliqua e incerta, un bastone e una bombetta polverosa, i modi di un Lord nei vestiti di un pezzente. Charlie Chaplin, venticinque anni e l’esperienza di un vecchio marinaio, ha smesso di esistere. È nato Charlot, il Vagabondo, e il mondo non sarà più lo stesso.

Dettagli

  • Titolo: L’ultimo ballo di charlot
  • Autore: Fabio Stassi
  • Editore: Sellerio
  • Pagine: 288
  • ISBN: 9788838927645



E il vostro RM qual è? Buona settimana!

Serie TV: Una mamma per amica e i 5 motivi per un possibile ritorno in TV

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Sabato scorso, in occasione del ATX Television Festival, il panel dedicato a Gilmore Girls (da noi conosciuto come Una mamma per amica) è stato il teatro di una reunion magica, fatta di tanti ricordi e grande commozione. Il cast principale di GG, infatti, si è ritrovato insieme alla showrunner Amy Shermann-Palladino per rivivere i momenti più belli di una delle serie più amate degli anni 2000 e raccontare cosa ne è stato dei protagonisti in questi 8 anni dalla fine dello show.








Uno degli argomenti caldi della giornata è stato sicuramente quello relativo a un possibile ritorno delle ragazze Gilmore a Stars Hollow, in un sequel che potrebbe finalmente dare un finale compiuto alle vicende di Lorelai e Rory e dei loro amici. Dopo sette stagioni, infatti, una delle grandi delusioni dei fan della serie è sempre stato quel finale di serie che lascia aperte alcune questioni e ne chiude frettolosamente altre. Solitamente sono contraria a operazioni del genere, commercialate e fanservice gratuiti che regalano poco all’economia di una serie. La Palladino, inoltre, ha fatto sapere proprio in occasione del panel che per il momento nulla è stato deciso, ma che “se dovesse succedere, credo che saremmo tutti d'accordo. Se dovesse accadere, prometto che lo faremo bene". Al netto di tali considerazioni e di ciò che può  essere giusto o meno per un prodotto televisivo, quando si parla di serie come questa, che hanno generato un tale affezione nel pubblico, è impossibile ragionare solo con la testa, finendo per lasciarsi andare a emozioni ed entusiasmi da fan in pieno attacco di nostalgia. E allora ecco che un possibile ritorno in tv non appare più una così cattiva idea quanto un evento da auspicarsi, e queste sono i miei 5 motivi a giustificare la tanto rumoreggiata reunion.


1. Lorelai e Luke

Il motivo principale. Perché bisogna ammetterlo, la più grande delusione riguardo al finale di GG è proprio quella di non sapere cosa ne è stato di Luke e Lorelai. Dopo anni in cui li abbiamo visti stuzzicarsi tra un caffè nero e l’altro, avvicinarsi e allontanarsi, ridere e litigare, finalmente insieme e poi no, non più, tra riappacificazioni e rotture apparentemente insanabili, siamo giunti a quell’episodio finale in cui i nostri cuori di fan sono stati brutalmente infranti. Lui le sorride a lei, lei a lui, ma alla fine tornano INSIEME O NO? E il matrimonio si farà? Non si gioca con i sentimenti così, uffa.


2. Tutti pazzi per Rory

Rory non è propriamente il personaggio più simpatico della serie e a dirla tutta, se non ci fosse stata Lorelai, Gilmore Girl sarebbe durata molto meno. Stabilito ciò, un qualche interesse per le sorti di questa adorabile saputella ce l’abbiamo e non tanto per la sua carriera – l’abbiamo lasciata in partenza come stagista per la campagna di Obama e siamo sicuri che ora sia una intrepida giornalista sempre sul pezzo – ma soprattutto per la sua vita sentimentale. Perché se c’è una cosa che non è mancata alla ragazza sono proprio i bei manzi, che le hanno ronzato attorno fino all’ultimo episodio. Viene dunque da chiedersi se, dopo la laurea e l’inizio della sua avventura nel mondo del giornalismo, non ci sia stato un qualche ritorno di fiamma con uno dei suoi ex. Tralasciando Logan, che per me non è mai stata una cosa seria, ipotizzo spesso un nuovo incontro con Jess, a mio parere il miglior boyfriend che Rory abbia avuto. Sarà andata così oppure miss Gilmore ha trovato un nuovo amore? Attendiamo risposte!



3. Lane e Paris

Le amiche di Rory. Ho sempre adorato Paris, con i suoi modi da OSD e l’anaffettività incalzante, mentre Lane per molto tempo ha viaggiato tra la totale indifferenza e la compassione nell’avere una madre severa ai limii del vero, fino a quando non ha rivoluzionato se stessa entrando in una band, andando via di casa per vivere con due ragazzi, per poi innamorarsi e stravolgere ancora una volta la sua vita diventando mamma di due gemelli e guadagnando tutta la mia stima. Sarebbe bello, allora, sapere com’è Lane come mamma, se Zack ha deciso finalmente di diventare un adulto, mentre per Paris incrocio le dita sperando che la sua storia con Doyle proceda a gonfie vele.




4.  Stars Hollow

Perché Stars Hollows è la cittadina dei nostri sogni, un posto sospeso nel tempo e nello spazio dove succedono cose lontane anni luce dalla realtà, un luogo dell’anima dove la gente è sempre felice senza chiedersene troppo il perché, in cui trovare la pace e la serenità, la dimensione ideale per fare il pieno di buone vibrazioni. I personaggi che la popolano, poi, sono una rassegna umana tra le più bizzarre e divertenti ed è difficile non pensare con un moto di nostalgia a Miss Patty, Babette e dell’eccentrico Kirk. Stars Hollow ci manca tanto e ritornare tra le sue strade e i suoi abitanti è uno dei desideri più grandi che un fan di GG può avere.




5. Gilmore Girls, we miss you!

E mi sembra non ci sia molto altro da aggiungere.





Serie Tv: Game of Thrones Stagione 5, qualche riflessione e valli di lacrime

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E anche quest’anno siamo giunti alla fine. Dopo i soliti tribolanti dieci episodi, Game of Thrones ha salutato i suoi fan con un season finale degno della serie tutta e della perfidia che si annida in G. R. R. Martin e nei sadici showrunner dello show David Benioff e D.B. Weiss.

La nostra reazione agli eventi che ci sono stati raccontati in questo ultimo capitolo quella quinta stagione? Più o meno questa:


Seguita, ovviamente, da quest’altra reazione:


Ok, cerchiamo di ricomporci e procediamo con ordine. [ATTENZIONE SPOILER!]

La “bomba” ci viene riservata negli ultimi minuti dell’episodio ed è difficile andare avanti senza doverne fare i conti. Con una mossa terribile e crudele, Game of Thrones ci tiene in scacco con la morte di uno dei personaggi più amati di tutta la serie: il bastardo di Grande Inverno, colui che non sa nulla ma ci piaceva anche così, il povero Jon Snow viene pugnalato da un branco di corvi cospiratori. La scena lascia di sasso non solo per l’imprevedibilità dell’evento (a un passo dai titoli di coda e dopo tutti gli eventi raccontati fino a quel punto), ma anche per l’efferatezza dell’inganno e la freddezza con cui i guardiani traditori feriscono a morte il loro capitano, riservando l’ultimo colpo letale a un ragazzino che si presumerebbe dover essere innocente, ma che invece ci ricorda che nel mondo di Game of Thrones di innocente non c’è proprio nulla. La dipartita di Jon è un boccone difficile da digerire, sia perché se ne va un pezzo importante della storia, uno dei personaggi presenti nella serie fin dal primo episodio, sia per le implicazioni che la sua morte comporta ai fini dell’intreccio, tra chi lo vedeva già sul trono di spade e la paura che il piano diabolico di Martin sia quello di lasciare in giro solo i peggiori sacrificando i personaggi realmente validi, in un gioco del trono che si fa sempre più ingarbugliato e poco comprensibile.


E poi. Ma siamo proprio sicuri che sia morto?Kit Harrington ha dichiarato che non è previsto il suo ritorno nella sesta stagione e la pozza di sangue che si allarga sul corpo esamine di Jon sembra lasciare spazio a pochi dubbi, eppure i fan della serie e soprattutto dei libri sono da tempo alla ricerca di una possibile risoluzione e resurrezione. Sarà grazie al sangue di drago che pare scorra nelle sue vene? C’entreranno in qualche modo i White Walkers? O Melissandre anche questa volta tirerà fuori una qualche sua magia dalla vagina e farà il miracolo? Chi può dirlo se non solo quel ciccione malefico di Martin, che ci ha sempre tenuto a spiegare che nei suoi libri la morte di qualcuno non è necessariamente definitiva. Appunto.


La morte di Jon è solo la ciliegina su una torta fin troppo amara e ricca di avvenimenti. E sebbene la scena riservata al Lord Comandante ci abbia procurato ben più di una stretta al cuore, bisogna ammettere che la Walk of Shame di Cerceiè forse la scena con più forza visiva e carica emotiva dell’intero episodio. Tutti abbiamo odiato Cercei nel corso delle varie stagioni e in molti abbiamo desiderato vederla cadere in disgrazia, al punto che quando l’Alto Passero la rinchiude nelle segrete del Tempio dalle mie parti è partita una piccola ola. Eppure, assistere alla sua gogna pubblica, alla vergogna che la donna è costretta a subire lungo le strade di Approdo del Re, finisce per lasciarci con l’amaro in bocca e un vago sensore di rimorso per quella che abbiamo sempre immaginato essere la punizione esemplare per la Regina, insieme a un pizzico di compassione per la donna, pur consapevoli che saprà presto vendicarsi e già pregustiamo il come ciò avverrà. La camminata della vergogna è un’ulteriore conferma di come Game of Thrones dimostri quanto sia impossibile dividere il mondo in un manicheismo bianco/nero, poiché ogni realtà presenta al medesimo tempo luci e ombre, destinate a mescolarsi continuamente tra loro, in una danza che non ammette purismi o fondamentalismi di sorta, di cui presto anche i Passeri dovranno rendersene conto.


Il decimo episodio non si fa mancare altre tragedie, piccole o grandi che siano. Dopo il rogo di Sheeren della scorsa settimana, ho trovato la disfatta e l’esecuzione di Stannis la giusta conseguenza alle sue azioni, anche se una fine tanto ingloriosa per uno che si è professato per 5 stagioni come uno dei giusti e dei più integerrimi dispiace sempre un po’. E mentre Stannis viene giustiziato da Brienne alle porte di Grande Inverno, dentro le sue mura Sansa prova invano a farsi salvare dalle grinfie di quel psycho di Ramsay, con una candela che purtroppo nessuno più vedrà, a conferma che hashtag come #sansaunagioia non sono mai abbastanza. La sua fuga, però, permette a un personaggio ormai fin troppo vessato dagli eventi di redimersi dalle sue colpe: Reek ha un impeto di amor proprio che lo riporta per un secondo a essere di nuovo Theon e decide di salvare la lady di Grande Inverno da tortura certa lanciandosi con lei da un muro di cinta in un mare di neve, per la serie “Buttati che è morbido”. Saranno sopravvissuti al volo? Lo scopriremo solo vivendo.


A sud, invece, non c’è gioia per i Lannister e il povero Jaime è costretto ad assistere alla morte per avvelenamento della sua unica figlia/nipote Myrcella, per mano di quella vipera di Ellaria Sand, evento che è facile immaginare incrinerà ulteriormente i rapporti con i dorniani e forse renderà più utile la presenza delle Serpi delle Sabbie, finora spacciatesi per imbattibili guerriere, anche se al momento tutto ciò che di loro abbiamo visto non sono certo le abilità in combattimento.


E dall’altra parte del Mare Stretto? La piccola-ma-neanche-più-tanto-piccola badass di Arya riesce a spuntare un nuovo nome dalla sua lista, in una scena piuttosto cruda e cruenta che ci mostra quanto lontano si sia spinta la piccola di casa Stark lungo la sua strada cesellata dalla vendetta e dal dolore che nasce dalla solitudine e l’abbandono. Per lei le tribolazioni non sono ancora finite, così come le lezioni di vita che il Dio dai Mille volti desidera impartirle, dato che la sua decisione di fasi giustizia da sola le costerà la vista e una nuova sfida da affrontare.


Nella Baia degli schiavisti, intanto, la Madre dei Draghi Daenerys, dopo lo scenografico volo in sella a Drogon della scorsa settimana, ha qualche difficoltà a tornare a casa e si ritrova ben presto circondata da uomini a cavallo di cui non sappiamo ancora quali siano le intenzioni; a dirla tutta, però, la scena le viene rubata da un altro personaggio, forse l’unico in questa stagione ad avere un plot dall’andamento positivo. All’inizio della quinta stagione, Tyrion appariva determinato a proseguire lungo la strada dell’autodistruzione, quale giusta condanna autoimposta per aver posto fine alla vita di suo padre e della donna che credeva di amare e che lo aveva brutalmente tradito. Eppure, il nano è forse uno dei personaggi più caparbi e fortemente ancorati alla vita dell’intera saga ed è proprio questa sua natura che lo ha aiutato ad andare avanti nonostante tutto e a ritrovare la curiosità verso il mondo che lo aiuta a raggiungere Dany, grazie anche alla “spinta” di Jorah Signore della Fiendzone, fino a diventare addirittura suo consulente. E in questa season finale, mentre Jorah e Naario decidono di  proseguire nella loro lotta tra galli e andare in cerca della regina, il Folletto si ritrova a prendere in mano le redini del governo di Mereen e di tutta la Baia, aiutato da quel Varys che tutto conosce e sa sempre dove e quando palesare la sua presenza, tornato a formare ancora l’irresistibile coppia che ci manca dai tempi di Tyrion come Primo Cavaliere. Sono particolari come questi che ci fanno amare Game of Thrones.


In conclusione, questa quinta stagione ci è piaciuta? Da fan della saga non si può negare una certa soddisfazione. Quella che abbiamo visto in queste settimane è stata una stagione complicata, dagli equilibri delicati e dalle fila difficili da dipanare. Di eventi da raccontare, di avvenimenti fondamentali, ce ne sono stati parecchi, benché in molti ci siamo lamentati della lentezza della prima metà degli episodi e dell’assoluta mancanza di “movimento” e fatti davvero eclatanti fino alla settimana puntata. Occorre tenere in considerazione quale sia la struttura della serie, perché a ben guardare, anche le precedenti stagioni hanno sempre alternato episodi memorabili ad altri di maggiore contenuto: Game of Thrones rimane pur sempre un drama dalle inclinazioni storiche e politiche e come tale i lunghi dialoghi, i momenti di pura strategia, le alleanze e i complotti, i segreti e i misteri sussurrati sono fondamentali tanto quanto un Red Wedding. Bisogna poi aggiungere che, al punto della storia a cui si è giunti, assumono grande importanza anche le scene meno impattanti e più “noiose”, ma che  contengono in sé gli indizi e le chiavi per comprendere un universo e un intreccio sempre più ricco e articolato. La serie deve sopperire a ciò che i libri sviscerano con pagine e pagine di digressioni e, per tale motivo, non possiamo aspettarci l’invasione dei White Walkers senza almeno un episodio con parecchie chiacchiere e qualche paio di tette tanto per alleggerire l’atmosfera. Preso atto di ciò, la stagione è apparsa la più fiacca e sbilanciata della serie ed è legittimo sperare in una prossima season più equilibrata e meglio strutturata, non sempre tesa a fare il botto solo negli episodi finali, finendo per lasciarci in balia dei colpi di sonno tra il secondo e quarto episodio e concentrare tutti maggiori avvenimenti in un solo episodio finale. I cliffhanger sono sempre auspicabili per una produzione televisiva, ma l’impressione che nel decimo episodio ci fosse “troppa roba” resta e non ci permette di dare un giudizio totalmente positivo a questo ciclo di episodi.

Al netto dei difetti e dei pregi, Game of Thrones rimane Game of Thrones, il suo intrattenimento immediato e coinvolgente continua ad affascinarci e trascinare tutti in una sorta di ordinaria follia che ci porteremo dietro ancora una volta per un anno intero, e la quinta stagione resta uno snodo importante per la serie e la saga tutta: ora che lo show ha raggiunto i libri, cosa accadrà il prossimo anno? Fremo al solo pensiero.


Fragola al cinema: Youth – La Giovinezza

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Ci vuole un po' per riemergere dalla visione di Youth - La giovinezza, l’ultimo film di Paolo Sorrentino. Occorre prendersi del tempo, per risalire in superficie dal mare di sensazioni, emozioni e bellezza e per mettere ordine ai propri pensieri, tra gli strati molteplici di un film multiforme. Perché è inevitabile rimanere sopraffatti da Youth, un film dalla disarmante bellezza, di certo, ma che sa andare oltre le sovrastrutture estetiche e baroccheggianti per un racconto di più ampio respiro e contenuto sulla vita e la morte, l’amore e la passione, l’arte e il desiderio, la vecchiaia e quella gioventù tanto decantata, cercata, vissuta, rimpianta, incompresa, respinta, amata. Un cast notevole, da Michael Caine a Harvey Keitel a Paul Dano, corona uno dei film migliori di Paolo Sorrentino, dove la sua poetica ne esce accresciuta, matura, ispessita da un contenuto che fa il paio con la forma, e che regala sentimenti di struggente meraviglia e momenti indimenticabili.






Titolo: Youth- La Giovinezza
Regia: Paolo Sorrentino
Anno: 2015
Paese: USA
Cast: Michael Caine, Harvey Keitel,
Paul Dano, Rachel Weisz











In una esclusivo albergo circondato dalle Alpi svizzere, si rifugia Fred Ballinger (Michael Caine), un direttore d’orchestra famoso in tutto il mondo che da qualche anno si è ritirato dalle scene e, in qualche modo, anche dalla vita. A fargli compagnia nel suo soggiorno l’amico di sempre Mick Boyle (Harvey Keitel), regista di lungo corso che a differenza dell’amico non è ancora deciso a farsi da parte ed è lì con tutti i suoi giovani collaboratori per scrivere quello che a suo parere sarà il film della sua vita, quello per cui verrà ricordato su tutto, sebbene non riesca ancora a trovargli un giusto finale. I due amici trascorrono così le giornate tra passeggiate e ricordi di giovinezza, osservando le tribolazioni dei figli e di coloro che sono ancora “giovani” e che hanno ancora parecchi anni davanti e un tempo per amare, perdere, vincere, sbagliare, imparare che a loro ormai non è più dato. Gli eventi assumono una piega inattesa quando Ballinger viene invitato a tornare a dirigere in onore della Regina d’Inghilterra e il direttore d’orchestra si troverà così ad affrontare sentimenti che a lungo aveva messo da parte, incapace di dar loro la giusta collocazione nella sua vita che crede quasi giunta all’epilogo.

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Youthè un film che si dispiega lentamente, senza fretta, paziente, seguendo il ritmo di chi non ha più bisogno di rincorrere il tempo convinto di averlo ormai raggiunto ed è così che vengono sciorinati tutti gli interrogativi contenuti nella pellicola. Si parla di giovinezza, come il titolo stesso suggerisce, ma non solo, e il discorso, attraverso le lunghe conversazioni tra i due amici artisti e con gli altri ospiti della struttura, tocca argomenti molto cari alla filmografia di Sorrentino e che abbiamo già intravisto nella Grande Bellezza: la vita e il senso che proviamo a darle, il tempo che scorre inesorabile, la bellezza e il suo essere effimera e sfuggente, l’amore e i sentimenti dettati dall’umana natura, il desiderio, la morte, l’arte come espressione del proprio sé, la giovinezza e la vecchiaia in un confronto continuo, nel tentativo che l’una arricchisca l’altra di senso e viceversa. Se Jep Gambardella osservava il mondo in modo disincantato e quasi canzonatorio, qui Fred Balinger ha uno sguardo più benevolo e malinconico, come un rimpianto dolce e quasi divertito da un affannarsi che lui non sa più spiegarsi ma di cui sente inevitabilmente la mancanza. Senza La Grande Bellezza, probabilmente questo film non ci sarebbe potuto essere e, in qualche modo, Youth ne è una derivazione, un figlio che sorprendentemente riesce a superare il suo predecessore. Perché in Youth c’è davvero molta più bellezza che nella Grande Bellezza.

sorrentino-youth-la-giovinezza

Una bellezza dai tratti poetici e tendente alla sublimazione, che rientra in un percorso estetico da sempre teso alla perfezione e all’estetismo più puro e fino a se stesso, forse uno dei “difetti”  maggiormente imputati al cinema di Sorrentino. Eppure, a ben guardare, la bellezza di Youth raggiunge uno spessore e un valore che neanche La grande bellezza aveva saputo toccare. Senza stare qui ad analizzare inutilmente i pregi di una ricerca stilistica da vero artista del cinema, tra una fotografia che lascia senza parole (opera di Luca Bigazzi) accompagnata da una colonna sonora che strugge ed emoziona per a quale dobbiamo ringraziare David Lang, l’estetismo di Sorrentino qui decide di andare più a fondo, non solo facendo bella scena di sé, ma divenendo strumento e tramite di un messaggio che è una strabiliante ode alla vita. Se nella Grande Bellezza abbiamo avuto il sensore che alcune scene fossero state sapientemente costruite con il preciso scopo di stupire e lasciarci attoniti di fronte a tanta beltà, in Youth tutto sembra essere connesso, ogni scena, anche la più onirica e surreale, pare avere un senso preciso e un ruolo specifico nel processo del film e nel percorso che i singoli protagonisti compiono.

Youth_01809_picture-by-Gianni-Fiorito

Fred e Mick osservano il mondo da una posizione che è solo apparentemente privilegiata. Lo sguardo accondiscendente che riservano ai figli o agli ospiti più giovani del prestigioso centro benessere sono in fondo una maschera, sotto cui nascondere sentimenti come la paura, l’insicurezza – che pare non abbandonarci neppure a veneranda età – e un’insospettabile invidia. Un timore reverenziale per quella giovinezza ormai perduta, sinonimo sì di drammi, incertezze, tormenti e di una ricerca della felicità che non sembra avere mai fine, ma anche orgogliosa, sprezzante, visionaria, energica, coraggiosa di accettare la vita e tutto ciò che essa comporta, di una bellezza che trova espressione nei corpi ancora non corrotti e freschi degli ospiti del centro, in particolare in quello di Miss Universo (Madalina Ghenea), che rappresenta la bellezza della giovinezza in tutto il suo splendore e di fronte a cui i due uomini restano attoniti e in contemplazione. Le reazioni arrivano a dividere gli amici di sempre. Fred, che ha deciso di allontanarsi dal quel teatro che è la vita e da ciò che ama davvero, quella musica che lui porta in superficie solo nelle sue sessioni d’orchestra nei pascoli dalla natura rigogliosa, perché si crede troppo vecchio e ormai pronto ad attendere placidamente la morte, decide infine di tornare al suo più grande amore, a dispetto delle sofferenze che un tale sentimento comporta ma che fanno d’altronde parte della sua magia. A scuotere l’apatia che gli fa da corazza è, proprio il confronto, diretto e crudele, con la morte che credeva di essere pronto ad accogliere: Mike, di fronte all’ineluttabilità del tempo che scorre, non riesce come Fred ad accettarne le conseguenze, si accorge di averne abbastanza di quel mondo e che la fede all’arte a cui ha consacrato la sua esistenza non basta più. Decide di suicidarsi e di arrendersi, lasciando a Fred un lascito oneroso ma anche la forza necessaria a superare ogni paura e tornare ad abbracciare la vita e quegli anni, forse non più verdi ma altrettanto meritevoli di essere vissuti, che il tempo ha deciso ancora di concedergli.


Attorno a loro, il brusio e l’incessante movimento dei “giovani” del film, a rappresentare il diverso sentire delle nuove generazioni. La figlia di Balinger, Lena (Rachel Weisz), si ritrova a soffrire un conflitto sentimentale e interiore generato da un matrimonio fallito, a manifestare la difficoltà dei rapporti e delle relazioni umane dei nostri tempi, fatte di incertezze e fragilità dettate da una società che non ti rende capace di amare prima te stesso per poter accettare di condividere le proprie esperienze di vita con qualcun altro, dove siamo troppo concentrati sulle singole miserie per capire davvero i motivi che portano alla fine di una storia. La paura più grande è quella non solo di amare, ma di lasciarsi andare affidandosi a qualcuno che non siamo noi e non è un caso che Lena riesca a superare la fine di un matrimonio e tornare ad amare solo accettando i propri limiti e imparando a fidarsi di un timido ma intraprendente scalatore, sempre pronto a sostenerla tanto ad alta quota quanto nella vita. Intanto, il giovane attore Jimmy Tree (Paul Dano) cerca di trovare l’ispirazione per il suo nuovo personaggio, nel tentativo di scalciare dai ricordi del pubblico il suo personaggio più famoso e popolare che lui ha imparato a odiare. “Uno si crede incompleto ed è soltanto giovane” scriveva Calvino e il personaggio di Jimmy Tree interpreta al meglio tale definizione di gioventù: in attesa di interpretare il suo personaggio più importante e controverso, l’attore si dimostra inizialmente in piena crisi esistenziale, inibito dalla paura di rimanere incastrato dietro a quella singola maschera a cui pure deve la sua fama e dal timore di non essere quella promessa del cinema che tutti hanno paventato, e occorrerà prendere una decisione radicale e travestirsi da uno dei mali dell’umanità, in una delle scene più impattanti del film, per ritrovare la strada verso la definizione della propria identità, fatta delle nostre azioni e dalle nostre opere, nella speranza che queste possano salvarci da un’esistenza altrimenti priva di senso. Il suo percorso esemplifica al meglio il concetto dell’inestinguibile giovinezza dell’arte, che sta tutta nel suo incessante tentativo di mostrarci la meraviglia delle cose e di raccontare il desiderio e l’emozione, persino in mezzo a ciò che noi giudichiamo con orrore. Nell’arte come nella vita, il segreto della vera giovinezza sta nella leggerezza insita nella libertà dalla paura, dai ricordi e dai bilanci, racchiusa in un presente che raggiunge il piacere perdendosi nell’autentica bellezza di un’opera, di un semplice gesto o dei piccoli essenziali valori di cui la vita si compone.

SET DEL FILM "LA GIOVINEZZA" DI PAOLO SORRENTINO.<br />NELLA FOTO  PAUL DANO E EMILIA JONES.<br />FOTO DI GIANNI FIORITO

Youthè un film intimo, riflessivo, ma anche straordinariamente potente, merito anche di un cast da outstanding. Michael Caineè ineccepibile e lascia senza parole, affiancato da Harvey Keithel perfettamente nella parte, creando dei duetti notevoli e deliziosamente ironici. Molto brava Rachel Weisz e bravissimo Paul Dano, in un’interpretazione intrigante e magnetica che resiste molto bene al confronto con i pezzi da novanta. Le loro interpretazioni completano e arricchiscono un film che sa incantare con geometrie fluide che lasciano spazio all’estro e all’arte, una pellicola di classe che coniuga la tecnica alla poesia, generando bellezza e sublimando ciò che nella vita ci appare semplice e addirittura troppo amaro per poterne trovare un minimo piacere. Una lunga riflessione dai livelli multipli, che lascia sopraffatti ma sa regalare quelle emozioni basilari ma umanissime che Sorrentino, con il suo linguaggio immaginifico e visionario, ci rivela essere tutto ciò che conta davvero.

VOTO: 9

Giornata mondiale del bacio: i 15 baci più belli delle serie tv

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Sarà il caldo che sprigiona gli ormoni o il fatto che solitamente le storie estive sono quelle più dolci da ricordare, ma da qualche anno il 6 luglio è la giornata mondiale con cui si festeggia uno dei gesti più belli, romantici e passionali per dire “Ti amo”: il bacio. In occasione di questa ricorrenza, dato che la vostra Fragola è sempre l’ultima delle romantiche nonostante tutto, ho pensato di stilare una personalissima ma spero condivisibile lista dei 15 baci più belli visti nelle serie tv che amiamo. Che il romanticismo sia con voi!

1) Seth e Summer – The O.C. 2x14

Uno dei baci che ho più amato e probabilmente tra i più iconici del mondo della serialità televisiva. Chi non ricorda la scena sotto la pioggia in cui Summer, che ha capito che il suo cuore appartiene a Seth, torna a casa e trova il ragazzo a testa in giù con la maschera di Spiderman, dandole l’occasione per dargli un bacio ormai entrato nella storia. Conosciuto anche come lo “spiderman kiss” questo bacio è indimenticabile e la quinta essenza del romanticismo!


2) Carrie e Mr Big – Sex & The City 6x23

Nell’ultimo episodio di una delle serie più amate dalle donne di mezzo mondo, Mr Big decide di accettare senza più alcuna remora l’amore per Carrie e corre a Parigi per riprendersi la sua amata. Carrie, dal canto suo, si è già pentita di aver seguito Petrovsky in Francia perché capisce di non amarlo e di non essere davvero amata, e non aspettava altro che il suo vero amore la “salvasse”. Il bacio sullo sfondo della città più magica del mondo è una delle cose più romantiche mai viste, nonché la consacrazione di una storia d’amore e di una serie ineguagliabili!


3) Sawyer e Juliet – Lost 5x08

So bene che quando si parla di Lost e di coppie, si pensa quasi subito ai baci “calienti” tra Sawyer e Kate. Eppure a me Kate non ha mai ispirato particolare simpatia e ho invece sempre tifato per i Suliet (Sawyer+Juliet). Immaginate dunque con che tenerezza e gioia  ho accolto il bacio tra i due ai tempi della quinta stagione, quando i due sono bloccati nel passato e credono di aver finalmente trovato una loro dimensione nel villaggio della Dharma. Una delle coppie più belle della serie, uno dei baci più dolci.


4) Joey e Pacey – Dawson’s Creek
Inutile che ve lo dica, io stavo dalla parte di Pacey e Joey: bellissimi insieme e come ci hanno fatto emozionare loro nessun altro mai. Per buona pace di Dawson, che partiva già parecchio svantaggiato con tutte le sue menate e paranoie varie. Pacey invece era uno di quelli che agiscono prima di parlare ed era proprio quello che ci voleva per quella chiacchierona sempre depressa di Joey.  Il lor primo bacio è uno dei momenti topici di tutta la serie e pietra miliare della mia generazione. Ogni volta che lo vedo, tanta emozione e una lacrima di nostalgia.



5) Meredith e Derek – Grey’s Anatomy 2x27
In questa lista dei baci più belli non poteva mancare una delle coppie più amate della tv. Stiamo ancora piangendo la dipartita del nostro caro McDreamy e quindi come non commuoverci di fronte a uno dei baci più importanti per la coppia, agli inizi della loro storia. A quei tempi, Derek era ancora sposato con Addison e noi non vedevamo l’ora che lui la lasciasse per una Meredith  non ancora insopportabile. Nel finale della seconda stagione, dopo che Mer ha implorato inutilmente Derek di lasciare la moglie (“So pick me. Choose me. Love me”) e il dottor Stranamore ha deciso di provarci ancora con Addison, i due si ritrovano a un ballo di beneficenza e si rendono conto che la scintilla c’è ancora, con un bacio appassionato di quelli che sciolgono.


6) Chuck and Blair – Gossip Girl 1x07

Gossip Girl è stata una mia mania per alcuni anni, per poi pian piano scemare e ridimensionare al punto che sul finale ho tirato un bel sospiro di sollievo dicendomi: “Oh, è finita!”. Alla luce di ciò, è per me comunque impossibile non pensare con un po’ di sana eccitazione e un pizzico di nostalgia a certi momenti iconici della serie, soprattutto a quelli dedicati alla mia coppia preferita in assoluto, vale a dire Chuck e Blair. Il bacio in limousine della prima stagione è probabilmente uno dei momenti più magici degli inizi della loro travagliata relazione, a dimostrazione del fatto che insieme quelle due canaglie erano perfetti fin dall’inizio.


7) Rachel e Finn – Glee 2x22

Altro finale di stagione, altro momentone seriale, altra commozione. Alle Nazionali a cui i New Directions partecipano nella seconda stagione, Rachel e Finn portano un duetto sicuri di vincere. Purtroppo il nostro gruppo di cantori preferito perde, ma tra i due scatta un bacio lungo e romantico sul palco, che sembra in qualche modo appianare tutta la tensione e i problemi che la coppia ha avuto lungo l’anno. Se ci penso ho ancora i brividi.


8) Emma e Hook – Once Upon a Time 3x22

La verità è che io continuo a guardare Once Upon a Time soprattutto per loro due. Emma e Hookk sono una coppia che mi emoziona, mi fa una tenerezza immensa e sì sono davvero una ragazza dal cuore troppo delicato. Lo scorso anno, la Salvatrice e il bel Pirata si sono ritrovati a vivere un’avventura a due nel passato del mondo delle fiabe e questo li ha portati a dichiarare i loro sentimenti l’uno per l’altra. Che Hook fosse inesorabilmente cotto di Emma si era capito da tempo, ma Emma era ancora troppo legata al suo passato per guardare avanti. Il bacio dolcissimo davanti al Granny’s ci ha dimostrato che la ragazza era pronta a lanciarsi in una nuova storia. Che teneri!


9) Sheldon e Amy – The Big Bang Theory 7x15

Lo scorso anno abbiamo avuto la prova che Sheldon, in fondo, è un essere umano come tutti. Sarà stata l’atmosfera, il San Valentino organizzato su uno dei treni cha ama tanto, sarà che Amy alla fine è l’unica santa donna che potrà mai sopportarlo, ma all’ennesima richiesta di romanticismo di Amy, Sheldon decide di baciarla, dapprima per sfida ma poi sembra prenderci gusto. Giuro di essere balzata dalla sedia. Sheldon in grado di baciare qualcuno? Oh yeah! Probabilmente uno dei momenti top della serie.


10) Ian e Mickey – Shameless 5x10
Scena molto intensa a cui abbiamo assistito quest’anno. Ian è tornato da poco a casa e Mickey fa di tutto per cercare di riportare la loro storia alla normalità. Ma Ian sembra non gradire quell’atteggiamento troppo dolce e attento nei suoi confronti e stuzzica Mickey fino a scatenare una vera e propria lotta tra loro due, con tanto di pugni e botte come ai vecchi tempi. Alla fine, i due ragazzi si lasciano andare a un bacio carico di passione, un segnale con il quale ci siamo illusi che la loro storia d’amore poteva ancora farcela a uscire indenne dalla malattia di Ian. E a prescindere da ciò che accadrà nella prossima stagione, Gallavich forever.


11) Jane e Lisbon – The Mentalist 6x22

Abbiamo dovuto attendere 6 stagione e un numero incredibile di filler, ma alla fine i fan più temerari di The Mentalist hanno avuto ciò che aspettavano da tempo: il bacio tra Patrick Jane e Teresa Lisbon. Nel finale della sesta stagione, Jane decide finalmente di dichiararsi proprio quando Lisbon sta per salire su un aereo per raggiungere il suo innamoratissimo fidanzato. Jane dice di amarla e di non poter vivere senza di lei mentre viene portato via dalla polizia. Naturalmente Teresa scende da quell’aereo perché era tutto ciò che sperava accadesse davvero e raggiunge Jane, con il quale si lascia andare in un bacio lungo e romanticissimo. Alla fine, ne è valsa la pena.


12) Piper e Alex – Orange is the New Black 1x09

Piper non è propriamente il mio personaggio preferito in OITNB ma ammetto che nelle prima stagione ho seguito con interesse lo sviluppo della sua storia con Alex, che mi è sempre parsa una tipa tostissima. Qui voglio segnalare il lor primo bacio da galeotte: dopo l’isolamento e le ore di solitudine passate a riflettere u chi è veramente, Piper ha una sola cosa in testa: raggiungere Alex e baciarla. Detto fatto e il risultato è decisamente hot.


13) Cosima e Delphine – Orphan Black 1x07

Prima che tutto crollasse e la loro storia naufragasse per colpa di Leda e Castor e i Neoluzionisti, cosima e Delphine sono state una delle coppie più belle di Orphan Black, forse la più bella, travaglia, appassionata, malinconica, sofferta, romantica dell’intera serie. Tra i dolcissimi baci delle due ragazze, mi viene da ricordare uno dei primi baci, il secondo per la precisione, quando Delphine torna da Cosima ancora confusa per poi capire che i sentimenti che prova per la clone sono quanto mai reali. La tenerezza.


14) Oliver e Felicity – Arrow 3x01

La terza stagione di Arrow è partita con un bacio che ha fatto letteralmente impazzire i fan di Olicity, ovvero della coppia Oliver e Felicity. Oliver conosce i suoi sentimenti, Felicity anche ed è tutto bellissimo, peccato che la vita da supereroe renda tutto più difficile. Un primo bacio molto dolce ma triste e ci vorrà una stagione intera per rivederli ancora insieme così.


15) Jon Snow e Ygrittte – Game of Thrones 3x06

Probabilmente Jon Snow non ha mai saputo molto, ma bisogna ammettere che con Ygritte ci ha saputo fare. Il loro bacio appassionato in cima alla barriera è probabilmente una delle scene più romantiche della storia tra i due e forse anche di tutta la serie. A pensarci ora mi viene da piangere, quanta nostalgia!


E i vostri baci preferiti quali sono? Buon World Kiss Day!

Serie Tv: Sense8, la nuova serie Netflix targata fratelli Wachowski

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Sense8 è la nuova serie di Netflix targata fratelli Wachowski. E già tanto basterebbe a risvegliare la curiosità di fan e addicted della serialità televisiva, anche se parlare solo di tv ormai è riduttivo, dato che ci troviamo ormai di fronte a produzioni che sono eccellenti incroci tra lo show televisivo e il cinema, quello fatto bene. Sense8 è una di questi prodotti ricercati e ottimamente confezionati, a cui si aggiunge la voglia e la capacità di raccontare una storia e tante storie, tutte connesse tra loro a formare un grande intreccio in cui è un piacere perdersi. Una serie che parla di legami e connessioni, in un mondo che ci illude che tutto sia vicino a noi ma dove non ci siamo mai sentiti così distanti, dove occorre una sensibilità speciale, qualcosa che scatta dentro di sé come un superpotere, per permetterci di mettersi in ascolto con il mondo. Una serie che si iscrive pienamente al mondo del sci-fi ma lo fa nel modo più umano possibile, permettendo ai due fratelli registi di trovare quella dimensione a lungo cercata nella loro filmografia. Una storia sorprendente per una serie altrettanto interessante, che merita tutta la vostra curiosità e attenzione.


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Otto personaggi proveniente dai luoghi più disparati del pianeta, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’India all’Africa, dalla Corea al Messico, non si conoscono e hanno vite diversissime tra loro, eppure, all’improvviso, si troveranno a fare parte di un “cluster”, ovvero di un gruppo di menti affini che condivide emozioni, sensazioni, pensieri, ricordi e conoscenze, in cui possono comunicare tra loro e spostarsi, anche se non fisicamente, in vari luoghi e addirittura prendere possesso di altri corpi. A complicare il tutto, il gruppo è inseguito da un uomo di nome Whispers che dà la caccia ai sensate, ovvero queste persone dotate di capacità speciali. Starà a loro – Will, Riley, Capheus, Wolfgang, Kala, Nomi, Lito e Sun– capire chi sono davvero e qual è la storia che si cela dietro la creazione del loro cluster.

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Sense8 si presenta come una serie sci-fi e gli ingredienti ci sono tutti – evoluzione umana, genetica avanzata e ai limiti del reale, un dottore pazzo e misteri con soluzioni parascientifiche – eppure la serie appare fin dal pilot qualcosa di più, qualcosa di diverso. Sense8 è una serie altamente metaforica e profondamente umana, dove ogni storia raccontata rappresenta uno degli aspetti di un messaggio più grande, consegnato alla missione che sembrano avere gli otto del cluster: ogni vita e ogni luogo non sono altro che una maschera con cui ognuno dei protagonisti cerca di nascondere la propria vera natura e l’infelicità e insoddisfazione che si cela nei loro animi, quel vuoto esistenziale che niente sembra colmare. La nascita di una connessione così profonda come quella dei sensate sembra in qualche mondo, volerci parlare delle difficoltà dei rapporti con gli altri odierni e di quel senso di solitudine che, nonostante tutti i mezzi che ci permettono di essere collegati 24 ore su 24 con il mondo, non ci abbandona mai.

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Il tema delle relazioni umane e delle connessioni tra vite apparentemente diverse e distinte tra loro non è nuovo ai fratelli Wachowski. ci avevano già provato con Cloud Atlas, un film che presentava espedienti interessanti e di un certo impatto nonché spunti di riflessione che non hanno lasciato indifferenti, ma che ha pagato lo sconto di un disaccordo tra gli intenti del film e la sua potenziale espansione in un racconto pressoché infinito e la struttura e i tempi cinematografici che richiedevano una sintesi del progetto nella mente dei due registi, con il risultato di una pellicola per certi versi affascinante ma molto confusionaria e frammentaria. La formula seriale sembra essere loro più congeniale e a conti fatti, l’intera prima stagione di Sense8 può essere vista come un lungo film diviso in dieci capitoli, ognuno focalizzato sui singoli sensate. Il risultato è un reticolo quanto mai emozionante che collega vite, pensieri e sentimenti dei personaggi coinvolti, e balzando da una storia all’altra crea quel legame tra persone che annulla differenze e ostacoli e amplifica l’idea di essere qualcosa di unico destinato a essere insieme su questo pianeta. Senza dimenticare, però, una caratterizzazione attenta dei personaggi, che appaiono fina dai primi episodi solidi e ben tratteggiati, indipendenti l’uno dall’altro e capaci, quindi, di volta in volta di dare spazio alla propria storia, alla propria dimensione, raccontandoci di sé senza tradire lo spirito della serie e l’obiettivo centrale.

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Il risultato è un viaggio, un vero trip mentale, che regala picchi di grande emozione, di coesione e simbiosi tra i personaggi in un’adesione ad alto impatto emotivo, come nella scena in cui gli 8 sensate di ritrovano a cantare What’s Up da ogni luogo in cui si trovano, ma anche attimi di adrenalina pura, in cui i Wachowski sanno bene come fare, con coreografie abili e precise, inseguimenti al cardiopalma e un ritmo sostenuto che si fa man mano sempre più veloce, mentre si passa da un personaggio all’altro, mentre veniamo sballottati da un angolo all’altro del pianeta, per poi tornare indietro e andare nuovamente avanti fino a che la scena non diventa un turbinio di suoni, colori e azioni sovrapposte e accelerate, che ti lasciano senza fiato. La scena della “finta” sparatoria di Lito da vedere per credere.

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Una struttura tale, naturalmente presenta dei rischi. Il continuo alternarsi di storie e personaggi genera, soprattutto nelle prime battute della serie, una certa confusione e l’incapacità di seguire il filo roso che tiene tutte le linee narrative proposte, senza contare che a volte il saltare da una vicenda e l’altra può apparire stancante. In realtà, analizzandola nel suo complesso, l’economia della serie è quanto mai rispettata e dopo un iniziale momento di destabilizzazione, gli episodi si susseguono regalando indizi e risposte che lo spettatore attento, e ormai completamente rapito dalla storia e dai personaggi, raccoglie e codifica, tratteggiando così il percorso da seguire. Di puntata in puntata, Sense8 offre così uno spettacolo intrigante, dove l’empatia per i personaggi la fa da padrone per seguirne i passi e poter apprezzare la serie appieno, regalandoci parentesi emozionanti e ricche di pathos che non disturbano affatto il proseguo della storia principale. Impossibile non innamorarsi letteralmente degli otto protagonisti e appassionarsi alle loro storie. Sono il centro di tutto e questo appare fin da subito chiaro, permettendo allo spettatore un’immedesimazione rapida e pressoché totale. Tra gli attori protagonisti, spiccano le interpretazioni di Jamie Calyton (Nomi) e Truppence Middleton (Riley), probabilmente i personaggi più iconici tra quelli proposti, nonché quelli più capaci di guidare il gruppo in una prossima stagione che dovrà chiarire alcune questioni al momento lasciate in ombra a favore di soluzioni molto più sentimentali.

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Sense8è un prodotto intelligente e sensibile, dalla portata innovativa, un lavoro che cerca continua ispirazione e che offre espedienti diversi e una sperimentazione continua, non solo a livello di storytelling ma anche nella gestione del ritmo, nella ricercatezza della fotografia e nella cura all’accompagnamento musicale, forse due dei principali punti di forza della serie. Ogni episodio si presenta ai nostri occhi come una festa di suoni e colori, un dipinto dai paesaggi emozionanti, le immagini vivide e la colonna sonora ideale ad amplificare ciò che i membri del cluster provano e decidono di condividere con i loro fratelli. Immagine e suoni diventano così elementi collanti di quel legame che tiene saldamente uniti i pezzi di questa grande avventura che la serie cerca di raccontare.

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Probabilmente Sense8 non sarà una serie che piacerà a tutti e magari non subito. La sovrapposizione di piani, il ritmo a tratti sincopato, il cambio di prospettiva repentino e spesso multiplo può generare una certa insofferenza a chi preferisce storie più “lineari” e sviluppi in cui a ogni causa corrisponde un effetto. Eppure Sense8è una serie a cui vale la pena dare uno sguardo, per la sua ventata di novità e il suo concetto di serie “d’avanguardia” che tenta di offrire qualcosa di diverso nel panorama della serie televisive e del mondo sci-fi, offrendoci un tipo di intrattenimento leggero eppure intelligente, dai molteplici livelli di lettura e con una sua visione del mondo da diffondere e condividere, capace di alienarci, confonderci ma anche emozionarci profondamente. Anche questa volta Netflix ha colpito nel segno e ci sono tutte le premesse per una seconda stagione e per una serie destinata a crescere e progredire senza perdere nessuno dei suoi punti di forza. Nell’attesa, quel che è certo è che andrete canticchiando in giro What’s Up per almeno una settimana. E sarà bellissimo.

Fragola legge: L’invenzione della madre di Marco Peano

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L’invenzione della madre di Marco Peanoè stato probabilmente una delle scoperte e sorprese dei primi mesi del 2015. Una storia forte, segnata dal coraggio di raccontarla; una prosa esordiente, nuova, eppure già consapevole e navigata; un romanzo delicato e  intenso al contempo, dove le parole del narratore, attraverso espedienti narrativi interessanti, capaci di sintetizzare altri linguaggi come quello cinematografico,  procurano emozioni contrastanti nel lettore, come una stretta allo stomaco che ti attanaglia fino all’ultima pagina, che fa male, risulta fastidiosa, per poi scoprire che era ciò di cui avevi bisogno.



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Titolo: L’invenzione della madre
Autore: Marco Peano
Anno: 2015
Editore: Minimum Fax
Pagine: 280
ISBN 9788875216337
 
 
 




La madre sarebbe tornata. Dopo più di un mese in ospedale, tutto a casa era pronto per accoglierla: Mattia e suo padre avevano curato ogni dettaglio. Era martedì 1° febbraio 2005 e l’aria era fredda, ma c’era il sole. Ogni cosa sembrava leggera.
L’invenzione della madreè la storia di Mattia e della sua famiglia. La storia di una malattia che è una condanna e un dolore che non si risana. Una storia di relazioni familiari e rapporti umani, di vite, progetti, speranze e disillusioni, visti alla luce di un male che ne ribalta di continuo la prospettiva e la direzione. Ma è soprattutto la storia di un amore, forse quello più vero e profondo, che lega un figlio alla propria madre, chiamato a sostenere il protagonista in una sfida difficile e ingiusta, fino a quell’assenza che non potrà mai essere colmata, attorno alla quale sarà necessario ricostruire e reinventare un nuovo modo di vivere ed essere nel mondo.

Leggere L’invenzione della madreè come avere accanto Mattia, il protagonista del romanzo, che in maniera pacata ma attenta ti racconta la storia di una famiglia alle prese con un male che ne ridisegna i confini, le relazioni  i pensieri dei singoli membri. Riviviamo così i momenti della malattia della madre attraverso gli occhi del figlio: le speranze di guarigione dopo i primi interventi per rimuovere ciò che nuoce al corpo della donna, l’illusione di una nuova normalità, la schiacciante disillusione data dal peggioramento fino alla dolorosa accettazione di una fine che è destinata a compiersi. Nel raccontare la sua storia, Mattia lo fa nel modo che conosce meglio, preciso, meticoloso, attento a non tralasciare nessun dettaglio che possa aiutare il lettore a comprendere il suo smarrimento, il suo dolore sordo e solitario, il suo sentirsi come bloccato in un’esistenza che forse non è vita ma è la sua vita. Attraverso un linguaggio cinematografico, così vicino alla grande passione di Mattia, ogni brano è una scena, ogni ricordo un flashback, ogni descrizione un piano sequenza, espedienti che contribuiscono a creare un senso di distacco e straniamento in chi legge e a diffondere il senso di alienazione, stallo e confusione vissuto dal protagonista. Ma ciò che spicca su tutto è il lento ma deciso emergere di un legame, quello che unisce Mattia a sua madre, un legame all’origine di tutto, inclusa quell’esistenza sospesa nel tempo di un inverno continuo e nello spazio di una stanza (che sia quella di un ospedale o la piccola dependance nel giardino della loro casa) di cui il protagonista sembra non poterne fare meno e nella quale, in maniera sofferta ma irresistibile, veniamo trascinati.
Le parole, a partire da adesso, vengono rimodellate per un nuovo uso.
A eccezione del protagonista, nessun personaggio ha un nome proprio e le persone che gravitano attorno a Mattia vengono semplicemente appellate con il loro ruolo: la ragazza di Mattia, la nonna, il padre, la madre. Una scelta che può apparire inizialmente come il desiderio di allontanare il lettore e di lasciare contorni vaghi attorno alla vicenda, ma che in realtà obbedisce al desiderio del narratore, intento a ricordare e raccontare, di ridefinire contorni e legami, spogliandoli del superfluo e lasciandone evidente l’essenza, i tratti distintivi che realmente li contrassegnano. E così, se la fidanzata è soprattutto una figura che si materializza in una macchina che gira per il paese e in sms stantii e sempre uguali, il padre un fantasma che si aggira per casa e un grumo di dubbi e domande irrisolte condensate in un biglietto crudele da parte di “un amico”, la madre viene raccontata attraverso la sua malattia ma, soprattutto, attraverso il suo corpo. L’attenzione al corpo, alla sua corruzione dovuta alla malattia, è forse uno dei tratti più importanti di L’invenzione della madre, l’elemento che più di tutti simboleggia e da un senso al rapporto che c’è tra madre e figlio. Non solo, ma è il mezzo con cui Mattia riesce ad esprimere al meglio l’amore che prova per sua madre, amore che si riversa in tutto il suo racconto, un continuo lavoro di memoria e inventiva, dove la presenza fisica della madre, la cura che il figlio ha del suo corpo, la dedizione alle sue condizione, ne disegna la geografia e i confini.
Più tardi, Mattia prepara sua madre per la notte. La distende con cura sul letto e la lava, la pulisce, la cambia. Poi quando ha finito la bacia, restituendole uno delle migliaia di baci della buonanotte che quand’era bambino lei gli ha dato.
Ne deriva un rapporto simbiotico, inglobante, dove non si riconosce dove finisca l’uno e finisca l’altro, racchiudendo la vita di Mattia all’interno di confini be precisi, fatti di ricordi passati e felici, un presente di medicine e orari in cui somministrarle, silenzi, dottori che dicono sempre la loro, attese negli ospedali, veglie nella propria casa, il mattino in videoteca, la notte al capezzale della madre. E sebbene tutto questo testimoni un amore puro e incondizionato, il rapporto di Mattia si fa sempre più unilaterale, man mano che ci rendiamo conto che è il figlio ad averne bisogno, a sentire la necessità di un’esistenza che sia uno scudo e al contempo una campana di vetro capace di cristallizzare il momento. Alla naturale e più che comprensibile paura della perdita si aggiunge anche la paura di crescere, di andare avanti, di superare quell’esistenza ormai ferma ad anni prima, che appare ripetersi stancamente giorno dopo giorno, ma che Mattia accetta e di cui ne è grato perché è l’unica in cui lei continua ad esistere. Ma la vita va avanti, arriva il momento di crescere e quello dolorosissimo di dire addio. La morte della madre, momento che sembra essere la fine del mondo così Mattia lo conosce, cede infine il passo alla vita: Mattia riscopre le sue passioni e i suoi desideri, torna ad accarezzare un progetto che sembrava ormai lontano, rivede le sue relazioni, riscopre pian piano che il mondo ha continuato a girare e a cambiare, come quella ragazza seduta alla panchina che passavano le stagioni ed era sempre lì intenta a baciare e poi, ad un tratto, se n’era andata anche lei chissà dove. Mattia prende in mano le redini della sua vita e si appresta a proseguire lungo la strada che lo aspetta. Ma dimenticare non solo non è possibile ma non è ciò che il protagonista desidera, ed è proprio in questo momento, nella riappropriazione di sé e nella realizzazione che ciò che sta vivendo non è che l’ennesimo e ultimo dono che una madre può fare al proprio figlio, che Mattia è pronto a ricordare e reinventare, se stesso e la propria storia, ma soprattutto reinventare la madre del titolo, cercando di trattenerla con sé anche in quel dopo senza lei, immortalandola in un ricordo che duri tutta la vita, in un racconto che è un atto d’amore di cui noi lettori non siamo che gli ultimi destinatari.
Un giorno, forse, potrà dire quella frase che dicono i registi: Sto girando un film. Gli piace quel gerundio, perché è un verbo che si contraddice all’evidenza: in quel preciso attimo quei registi sono intervistati, stanno facendo altro, non stanno girando un film. È come quando affermi: Sto leggendo un libro molto interessante, e lo dici stando in piedi alla fermata dell’autobus con le mani in tasca. Sono verbi in cui passa la vita, in mezzo alle azioni soffia l’alito delle cose che accadono, le pagine che leggi si riempiono d’aria e di pensieri, le immagini che filmi si gonfiano di azioni e di parole.
Marco Peano ci regala una storia dura e coraggioso, nato da un’esperienza palesemente autobiografica e che i più di noi considerano decisamente privata, mentre per lui diventa non solo una soluzione alla necessità di trattenere un dolore che non si è ancora pronti a lasciare, ma anche opportunità per liberare la propria scrittura e darle finalmente una forma. Un racconto che risulterà sgradevole ma bello allo stesso tempo, disturbante e meravigliosamente straziante, per il suo essere un racconto per certi versi “egoista” – privo di una moralità che molto probabilmente ne avrebbe svilito la natura –,  nel mettere in luce tutti quegli atteggiamenti vigliacchi e meschini scatenati da situazioni come quella vissuta da Mattia e proprio per questo assolutamente comprensibili e nei quali è possibile identificarsi e darne una piena giustificazione, senza però mancare di emozionare il lettore e di fornirgli scene di grande tenerezza e commozione. Il tutto attraverso uno stile decisamente contemporaneo, capace di elaborare il tutto e dare una struttura consapevole e ben organizzata alla narrazione, la conferma di un’opera prima notevole. Una lettura complessa, a cui bisogna essere pronti e dimostrare una certa pazienza, ma che, infine, risulterà difficile da dimenticare.
E tutto insieme, quel suono dà forma alla parola più docile e più forte che lui abbia mai pronunciato e mai pronuncerà: Mamma.

L'autore




Marco Peanoè nato a Torino nel 1979. Si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. L'invenzione della madre è il suo primo romanzo.

Giornata dell’amicizia: 5 libri da leggere (e regalare al tuo migliore amico)

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Il 30 luglio è la Giornata Mondiale dell’Amicizia. Una festa per quell’amico che non ci abbandona nel momento del bisogno, che come ci prende in giro lui nessuno mai; per quell’amica che conosce la storia di quella sera in cui tu non eri particolarmente sobria e sono successe cose che non racconteresti a nessun altro nemmeno sotto tortura, che ti chiama con nomignoli assurdi, fantastici, comprensibili solo a voi due; per quegli amici con cui hai trascorso gli anni migliori e ora che non vivete tutti nella stessa città quando vi incontrate è una grande festa di quelle che vorresti non finissero mai. A questa giornata e a tutte le persone che con la loro amicizia colorano la nostra vita dedico questa lista di 5 libri sull’amicizia tutta da leggere e magari regalare anche ai vostri besties.


1) L’amica geniale di Elena Ferrante


Un’amicizia tutta al femminile nata in un rione della Napoli anni ‘50. Nel primo libro della tetralogia, seguiamo Elena “Lenù” e Raffella “Lila” lungo la loro infanzia, tra povertà e una sistema sociale arcaico e circoscritto alle palazzine in cui vivono, fino alla loro adolescenza, epoca di cambiamenti personali ma anche storici e sociali. Impossibile non affezionarsi alle due protagoniste di questa storia dai tratti intensi, legate da un’amicizia di quelle indissolubili, con un che di magico capace di fondere l’identità dell’una nell’altra per non separarsi mai. Non vedo l’ora di leggere gli altri!







2) L’amico ritrovato di F. Uhlman

Una storia toccante, scritta con uno stile semplice ma che sa lasciare molto al lettore, sulla forte amicizia di due ragazzi in Germania nel 1932, destinata a rompersi per via di ideologie folli e l’odio che presto porterà il mondo a una terribile guerra. Un racconto, breve ma capace di trasmettere un messaggio importante sulla grandezza e piccolezza del genere umano.









3) Harry Potter di J.K. Rowling

Harry Potter è un libro che affronta moltissimi temi e non si può dire che uno di questi non sia l’amicizia. Harry, Ron e Hermione si incontrano sul treno per Hogwarts il primo anno e sarà l’inizio non solo di una incredibile avventura lungo sette sorprendenti anni tra incantesimi, magie potenti e maghi malvagi, ma anche di una grande magia di quelle che durano tutta una vita.







4)  Mille splendidi soli di K. Hosseini

Uno dei libri più commoventi che abbia ai letto, Mille splendidi soli non racconta solo le ferite e i traumi di una società come quella del Paese natale di Hosseini, ma soprattutto un’intensa amicizia tra due donne che si ritrovano a condividere la stessa vita e lo stesso dolore e che riescono a trovare proprio della loro amicizia il sostegno per poter continuare ad andare avanti, nonostante tutto, insieme. Doloroso e bellissimo.








5) La banda dei brocchi di J. Coe

Un libro che ho amato molto di uno scrittore britannico tra i miei preferiti. Una storia che racconta con la leggerezza dell’adolescenza la pesantezza di un’epoca difficile, attraverso le vicende che accomunano un gruppo di amici che vivono sulla loro pelle i cambiamenti di quegli anni, esperienza che creerà un legame tra loro capace di resistere al passaggio dalla giovinezza alla età adulta, in un libro ricco di emozioni, che diverte e commuove.








Buona giornata dell’amicizia a tutti!


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