In una scena nel primo episodio di
Maniac, Annie, la protagonista interpretata da
Emma Stone, si sofferma ad osservare un ragazzo che parla in un apparente gruppo di amici. Il ragazzo sembra star raccontando agli altri una qualche incredibile avventura, ma poi vediamo che, lentamente, gli altri ragazzi seduti accanto a lui distolgono lo sguardo, si voltano, cominciano a parlare con altra gente. In poche parole, il ragazzo è
solo e il suo era un tentativo fallito di trovare un contatto umano, di instaurare una minima, effimera, relazione con altre persone. Si tratta di una semplice scena, quel ragazzo non fa parte del cast principale, non compare nemmeno più negli episodi successivi, eppure credo che riassuma molto bene il senso profondo di questa straordinaria serie.
Maniacè una serie che potremmo definire retro-futuristica, con le sue atmosfere perse tra gli anni '80 e Blade Runner, ma non credo si possa etichettare in qualche modo.
Disturbante, disorientante, distopica, ma anche estremamente affascinante e dotata di una lirica tutta sua e commovente, Maniac è un prodotto di
grande qualità, ottimamente scritta e ancora meglio interpretata da Emma Stone e
Jonah Hill, la partenza ad alto livello della stagione seriale di
Netflix.
Cercando di non spoilerare, Maniac è la storia di
Annie e Owen, due persone che si sentono molto sole al mondo e in qualche modo "rotte", distorte, mal funzionanti e impossibili da aggiustare. Il loro incontro durante un trial medico decisamente fuori dagli schemi, un po' per volere del caso ("l'universo è caos" ripete Annie qui e là) un po' come conseguenza inevitabile degli eventi, li porta a conoscersi e a conoscere meglio loro stessi, attraverso un viaggio della mente ad opera del mega computer GRTA (chiamato dai suoi creatori "Gertie"), costellato da ricordi dolorosi, sensi di colpa e sentimenti di inadeguatezza, fantasie fascinose e desideri nascosti ma mai sopiti, non ultimo quello di essere felice. Il finale è tutto da scoprire, la lezione è di quelle che non si dimenticano.
E allora, tra computer intelligenti e protagonisti disagiati, cosa c'entra il ragazzo della scena iniziale? Beh c'entra eccome. Perché Annie guarda quel ragazzo e vede riflesso in lui tutta la sua
solitudine e l'individualismo di tutta una società. Il mondo in cui Annie e Owen vivono è un universo dove l'Io ha preso il sopravvento, dove ogni abitante del pianeta pensa solo a se stesso e ogni contatto umano viene visto come
un'intromissione, un pericolo per cui i sentimenti, le idee, le paure dell'altro possono contaminare il proprio spazio vitale e costringere a un coinvolgimento per il quale nessuno più si sente pronto.
Il mondo di Maniac è
un sistema di isole alla deriva, di uomini e donne talmente soli da avere bisogno di un servizio di amicizia a pagamento che fornisce amici finti con cui trascorrere del tempo senza ripercussioni emotive; di coinquilini che non si parlano e che vedono Annie sparire per giorni senza mai emettere un saluto o chiedere "Come stai?" di fronte alla sue evidente richiesta d'aiuto inespressa; di famiglie incapaci di amarsi davvero, che per convenienza e immagine spingono il membro più debole a preferire un'esistenza solitaria in un appartamento dalle dimensioni nipponiche e soffocanti, dove però Owen dice di sentirsi felice proprio perché non costretto a fingere.
In questo mondo così spaventosamente
vicino al nostro, è quindi facile essere dapprima disturbati da ciò che vediamo, una sorta di rifiutò della realtà, per poi cominciare a comprendere i protagonisti, farli diventare la versione estrema, distorta eppure così verosimile di noi stessi e dei nostri stili di vita sempre più votati all'egoismo e alla solitudine. E così iniziamo a seguire con partecipazione la "ricerca" di Annie e Owen, che dapprima si presenta come un tentativo di superare traumi mai curati, di guarire e tornare ad essere sani in un mondo dove "sano" vuol dire senza particolari tormenti né preoccupazioni, perché
impermeabile al mondo esterno. Annie e Owen invece sono
strani, bloccati fuori dai binari consueti, addirittura considerati "matti", proprio perché il mondo li ha toccati, in modo anche brutale e ora non possono fare a meno di soffrire.
Si apre così una ricerca dove si alternano momenti di grande profondità e lirismo ad altri alimentati da una comicità surreale e nonsense, perfetti per mettere ancora di più in risalto
l'assurdità di un mondo che ha dimenticato le sue priorità. La figura del professore
Mantleray (un fantastico
Justin Theroux) e quella della sua assistente Azumi Fujita diventano il contraltare della coppia Annie e Owen:
dei ex machina dell'esperimento a cui i due protagonisti stanno partecipando, sono tra i personaggi più persi e
incompleti della serie, anch'essi bloccati e corrotti dalle loro paure, incapaci di lasciarsi andare e votati all'unica causa capace loro di dare quel senso di unione e partecipazione che il resto non sembra garantire più: Gertie, la macchina su cui hanno investito tutte le loro energie, l'unica che sarà capace, entrando nelle loro menti, di alleviare le loro sofferenze.
Di puntata in puntata,
Annie e Owen si rincorrono l'uno nei sogni dell'altro, in una serie di
tripgirati meravigliosamente, vere e propri racconti nel racconto, viaggi della mente che vagano
nel tempo e nello spazio e che si fanno sempre più contorti, onirici, a volte strampalati, collegati tra loro in una sorta di Mille e una notte psichedelica. Una
fotografia accurata e una
sceneggiatura intelligente qui vanno a braccetto in uno spettacolo di costumi, luci, colori, atmosfere dal gusto
raffinato e mai banale nonostante il ripercorrere di stili e situazioni non del tutto sconosciute allo spettatore, che ci aiutano a viaggiare con i protagonisti e ad addentrarci rapiti, sempre più a fondo, nelle loro menti.
La narrazione procede
tra il mondo dei sogni e la realtà, e il confronto sembra segnare di volta in volta un tendenza inversamente proporzionale tra le due sponde: se inizialmente la condizione di Annie e Owen appare criptica, sconnessa, fuorviante, mentre tutto all'esterno sembra seguire uno schema preciso e incorruttibile, lentamente lungo la serie ci ritroviamo a riunire i tasselli di quel mosaico che sono le storie dei protagonisti, che diventa sempre più chiaro nonostante la sua dimensione onirica, mentre il mondo reale cade in preda all'entropia e sempre ridursi in pezzi, smascherando tutte le sue debolezze. Occorrerà l'intervento di un'entità al di sopra di tutto e tutti (GRTA/Gertie, che altri non è che la versione robotica della madre di Mantleray, interpretata da una grandissima
Sally Field) per portare a galla la contraddizione e (forse) portare a una risoluzione, mostrando che un percorso diverso, più umano, è possibile.
Nel loro percorso a due, Annie e Owen si confrontano e si riconoscono, in un'affinità mentale e di spirito che saprà rivelare quella
verità che è in tutte le cose della vita:
la sofferenza esiste perché esiste l'amore e non si può dire di aver sofferto senza aver amato. Ma è proprio questo che rende la vita impossibile da vivere se non condividendola con gli altri.
Frasi da smemoranda? Forse. Ma una serie come Maniac ci mette di fronte all'ovvio che eppure, a volte, facciamo fatica a ricordare.
Se l'amore è la risposta, insomma, allora vogliamo essere tutti dei Maniac.